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«Corri Sara, Matteo è lì che brucia». L’omicidio Vinci a Limbadi e la condanna ai presunti mandanti

I giudici d’appello, confermando le condanne per Vito Barbara e Rosaria Mancuso, ricostruiscono i drammatici istanti dopo l’esplosione

Pubblicato il: 02/11/2024 – 14:56
«Corri Sara, Matteo è lì che brucia». L’omicidio Vinci a Limbadi e la condanna ai presunti mandanti

VIBO VALENTIA «Sara corri è scoppiata la macchina». La chiamata della cognata, la corsa sul luogo dell’attentato, gli inutili tentativi di salvare Matteo Vinci, il biologo ucciso a Limbadi il 9 aprile 2018. «Una violenta contesa tra vicini», scrivono i giudici della Corte d’appello di Catanzaro, escludendo l’aggravante mafiosa ma confermando le pene per Vito Barbara (30 anni) e Rosaria Mancuso (ergastolo), ritenuti mandanti dell’attentato. Il collegio ricostruisce gli attimi appena successivi alla drammatica esplosione, dal boato sentito dai vicini alla corsa della mamma Sara Scarpulla in località Macrea, vicino al terreno di loro proprietà. «Corri Sara, Matteo è lì che brucia» è la frase che si sente dire, appena arrivata, dal marito Francesco, scampato per miracolo all’attentato, ma con ustioni gravi in diverse parti del corpo.

La ricostruzione dell’attentato

Se Francesco Vinci riesce a salvarsi in extremis, tra le fiamme a perdere la vita è suo figlio Matteo, biologo di 40 anni che era tornato a Limbadi per aiutare la sua famiglia con il terreno. «Lui non c’entrava nulla, abbiamo sempre provato a tenerlo fuori da questa situazione» ha detto tempo fa la mamma Sara in un’intervista al Corriere della Calabria. Quel giorno, ricostruiscono i giudici nelle motivazioni della sentenza, Matteo «si era offerto di andare al terreno per portare il cibo ai gatti, insieme al padre». Dopo poco più di mezz’ora, il boato e una colonna di fumo nero verso il cielo. Sotto la macchina dei Vinci «un ordigno di tipo pipe bomb» radiocomandato a distanza. L’arrivo dei primi soccorsi, le fiamme intorno all’auto e i tentativi di individuare il biologo ancora dentro l’auto. «Matteo non c’è, non lo vedo in mezzo alle fiamme» riferisce un allevatore, tra i primi ad essere accorsi. Solo dopo lo spegnimento dell’incendio viene trovato ciò che resta del suo corpo all’interno dell’auto.

Vinci_autobomba_limbadi

Le tesi difensive confutate dai giudici d’appello

Responsabili dell’attentato, secondo la sentenza d’appello, sarebbero Vito Barbara e Rosaria Mancuso, condannati rispettivamente a 30 anni e all’ergastolo. Se da una parte i giudici hanno rigettato le richieste della Procura per l’aggravante mafiosa e l’estorsione, ritenendo alcune versioni di Francesco Vinci e Sara Scarpulla inattendibili, altrettanto rigidi sono stati con quelle della difesa. In primis, confutando la tesi difensiva sul collocamento dell’ordigno esplosivo all’interno dell’auto e non all’esterno come valutato dai Ris, in quanto «trasportato dallo stesso Matteo Vinci per ragioni ignote». Una ricostruzione, quella che vedrebbe la vittima aver portato con sé sull’auto la bomba, scrivono i giudici, «contraria a ogni logica». Per il collegio giudicante le valutazioni del consulente difensivo, che puntavano sull’assenza di un cratere sul terreno e sulle lamiere dell’auto verso l’esterno, sarebbero «tecnicamente inconsistenti» dal momento che sono avvenute «sulla base delle fotografie scattate dal medico legale, senza effettuare rilievi tecnici sull’autoveicolo, senza recarsi sul luogo dell’esplosione». L’assenza del cratere, spiegano i giudici riprendendo la versione dei Ris, sarebbe spiegabile anche dal «terreno abbastanza duro», oltre al fatto che «si sarebbe verificato con certezza solo se l’ordigno fosse stato posizionato sul terreno». Al contrario, l’ipotesi più attendibile per i giudici è che «l’ordigno sia stato collocato sotto il pianale del mezzo e che l’innesco sia avvenuto mediante telecomando a distanza».

Il movente secondo i giudici

Per quanto riguarda il movente, i giudici sottolineano l’importanza delle intercettazioni. In queste «emerge con evidenza» l’odio che sarebbe stato provato dalla famiglia Di Grillo-Mancuso nei confronti dei Vinci, tanto che Vito Barbara avrebbe appellato più volte Francesco Vinci con il termine «cancro». Una serie di scontri continui tra le due famiglie, culminata con l’aggressione del 30 ottobre al padre Francesco, quando alla Mancuso e a Barbara «fu chiaro che l’unico modo per porre fine ai violenti alterchi con i membri della famiglia Vinci fosse l’eliminazione fisica degli stessi». «Ciò che si vuole mettere ancora una volta in luce – concludono i giudici – è la situazione metaforicamente “esplosiva” che si era venuta a creare nei rapporti di vicinato tra le due famiglie, situazione che ha fatto sì che, tragicamente, la metafora si trasformasse in terribile realtà». (Ma.Ru.)

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