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Il dramma di Emanuele Riboli: sequestrato dalla ‘ndrangheta, ucciso e dato in pasto ai maiali

Il 17enne venne rapito nel Varesotto nel 1974. Assolti i suoi assassini per intervenuta prescrizione. Il pm ai familiari: «Vi chiedo perdono»

Pubblicato il: 03/11/2024 – 7:03
di Francesco Veltri
Il dramma di Emanuele Riboli: sequestrato dalla ‘ndrangheta, ucciso e dato in pasto ai maiali

Emanuele Riboli nel 1974 ha 17 anni. Vive insieme alla famiglia a Buguggiate, un piccolo paese del Varesotto di poco meno di duemila abitanti. Secondo di cinque figli, tre femmine e due maschi, è un ragazzo timido, robusto, capelli neri. Ama lo sport, soprattutto il motocross.
La mattina lavora come operaio nella carrozzeria del padre, la sera frequenta i corsi serali dell’Istituto tecnico industriale di Varese. Tutti i pomeriggi, dopo aver raggiunto in bicicletta la piazza centrale del paese, prende la corriera che lo porta in città, per rientrare poi la sera intorno alle 22.
Suo padre Luigi ha 43 anni ed è un uomo noto nella comunità di Buguggiate. Da giovanissimo aveva fatto l’operaio per l’azienda dei fratelli Macchi, attiva nel campo aeronautico, poi aveva deciso di aprire insieme al fratello Pierino una piccola ditta di costruzione di cabine per autocarri, trenta dipendenti in tutto. I buoni guadagni lo avevano spinto a creare una seconda azienda a Pescara.
Sua moglie Bianca preferisce occuparsi dei figli, sono tanti e richiedono la massima attenzione.
Una famiglia normale, serena, come tante, che vive in una villetta alla periferia di Buguggiate, proprio a pochi passi dall’azienda di famiglia.
La serenità viene però spazzata via in un attimo la sera del 14 ottobre di quel 1974.
Emanuele è appena rientrato a Buguggiate da Varese insieme a Giulio Martignoni, suo compagno di banco all’Istituto industriale. Sono circa le 22.30 quando scendono dalla corriera e da piazza XXV Aprile si dirigono verso il cortile del ristorante “Saulo” dove Emanuele ha lasciato la sua bicicletta. Si salutano e da lì il ragazzo inizia a pedalare per tornare a casa. Un percorso brevissimo, in discesa, di poco più di un chilometro, che avrà fatto centinaia di volte, anche al buio come quella sera d’autunno. Ma proprio in quel buio sparisce misteriosamente. 

L’angoscia e il ritrovamento della bicicletta

I minuti passano e Bianca, la madre di Emanuele, inizia a preoccuparsi. Suo figlio non ha mai fatto così tardi, è sempre stato un ragazzo puntuale, educato.
Dopo le 23 chiama a casa di Giulio per avere notizie, ma quest’ultimo riesce a dirgli soltanto che l’amico è andato via da tempo. L’ansia dei genitori e dei fratelli di Emanuele aumenta, lo cercano dappertutto, urlano il suo nome, ma niente, nessuna risposta. La telefonata ai carabinieri e alla polizia è immediata, ma le forze dell’ordine all’inizio non sembrano dare molto peso a quella scomparsa. Forse pensano si tratti di una bravata e che presto il figlio di Luigi Riboli rientrerà nella sua abitazione.
La mattina successiva tutti comprendono che al 17enne è accaduto qualcosa di grave: la sua bicicletta viene ritrovata a poche centinaia di metri da casa sua. Era nascosta tra i cespugli, sul manubrio la borsa con i libri di scuola. Solo a questo punto gli inquirenti pensano a un rapimento con l’intento di chiedere un riscatto. La notizia si diffonde in paese, fino ad arrivare sui giornali locali. «L’ipotesi – si legge sulla Stampa di Torino – è che i rapitori abbiano sopravvalutato la consistenza del patrimonio della famiglia Riboli».

Un miliardo per liberare Emanuele

Dopo ore infinite di silenzio e angoscia, i rapitori contattano la famiglia di Emanuele. Per liberare il ragazzo chiedono un miliardo di lire. Una cifra assurda che Luigi Riboli non è in grado pagare «ma», li rassicura, «farò di tutto per raccogliere più soldi possibili».
Passa appena un giorno è nella villetta della famiglia Riboli arriva una lettera scritta da Emanuele. Dice di stare bene e di pagare il riscatto. Da quel momento in poi le telefonate tra i familiari e i rapitori si fanno sempre più fitte, a volte risponde Luigi, a volte Donatella, la primogenita di 18 anni. Le minacce sono insistenti, «pagate, sappiamo che i soldi li avete». Un giorno avvisano Donatella che Emanuele sta male e sputa sangue, tutto questo mentre gli inquirenti sminuiscono stranamente la vicenda.
Da un miliardo, la richiesta di riscatto scende a 800 milioni.
Il blocco di beni delle famiglie delle persone sequestrate non è ancora entrato in vigore. Per raggiungere quella cifra Luigi Riboli fa di tutto: ipoteca la ditta e la villetta in cui abitano, vende proprietà, firma cambiali, si indebita fino al collo, ma non basta ad arrivare a quella somma spropositata. Per ora bisogna accontentarsi e allora i carcerieri indicano una data e un luogo per la consegna del denaro, in una strada provinciale tra Toscana e Lazio.
Luigi e Pierino, lo zio di Emanuele, partono a bordo di una “126” blindata con una carrozzina sistemata in un portabagagli posizionato sul tettuccio. È un segno di riconoscimento. Avviene la consegna, circa 200 milioni. A cui ne seguiranno altre. Ma si tratta di pochi soldi rispetto a ciò che viene chiesto.
In una di queste circostanze Luigi Riboli vede le ombre di due persone che gli dicono «pagate o Emanuele ve lo rimandiamo a casa pezzo per pezzo». Dopo l’ultima consegna di 10 milioni nel dicembre del 1974, dei rapitori e di Emanuele si perdono le tracce.

Il programma di Enzo Biagi e il padre di Emanuele

Enzo Biagi durante il suo programma del 1975 “Proibito”

Un anno dopo, nell’ottobre del 1975, sui giornali viene pubblicato un appello dei genitori di Emanuele. «Fatevi sentire – supplicano Bianca e Luigi Riboli –, vi offriamo altri soldi, tutto ciò che in questi terribili dodici mesi siamo riusciti a raccogliere con grandi sacrifici. Vogliamo Emanuele, restituitecelo e ci impegneremo a pagare ancora. Non lasciateci in questa pena, per carità». Ma il tempo passa senza svolte.
L’11 luglio 1977 Enzo Biagi sulla Rai dedica una puntata del suo programma “Proibito” al dramma dei sequestri di persona e alle scelte compiute dai familiari per ottenere la liberazione dei propri cari. In studio c’è anche Luigi Riboli, padre di Emanuele. A quasi tre anni dalla scomparsa del figlio non si è ancora rassegnato, anche se ammette che da tempo non ha più notizie dei rapitori.
«I contatti – rivela l’uomo a Biagi – si sono interrotti. Abbiamo pagato tutto quello che avevamo, l’ultima volta ho versato dieci milioni dopodiché mi hanno chiamato e mi hanno chiesto a che gioco si giocava, se avrei pagato ancora oppure no. Ma io non avevo più soldi e il tutto si è interrotto. Sono finite le telefonate e i contatti. Io spero sempre che mio figlio possa tornare», conclude l’uomo.

La fine drammatica di Emanuele

La famiglia Riboli è stata una delle prime a pagare il prezzo dei sequestri di persona nel nord Italia. Ha pagato l’inefficienza di inquirenti incapaci di comprendere che dietro quegli atti criminali c’era la ‘ndrangheta.
Dopo oltre 15 anni di attesa, nel 1990 il pentito Antonio Zagari, racconta tutto di quel folle rapimento.
Al pm di Milano Armando Spataro e nel corso del processo “Isola felice” rivela di aver sentito come un graffio nella coscienza quando ha saputo che fine aveva fatto il povero Emanuele.
Nell’anno in cui il ragazzo venne rapito a Buguggiate, Zagari abitava a pochi metri dalle case dei fratelli Luigi e Pierino Riboli, di cui era un dipendente di fiducia. Inoltre, era un amico di Emanuele e suo compagno di gare motociclistiche.
Il sequestro, racconta l’uomo, fu deciso da suo padre, il boss della ‘ndrangheta Giacomo Zagari ed Emanuele venne ucciso con un veleno per topi e dato in pasto ai maiali.
Una fine assurda, spietata, disumana, decisa per punire i familiari del 17enne che si erano fatti convincere dai carabinieri a inserire soldi insieme a carta straccia e una ricetrasmittente in una valigia che avrebbero dovuto consegnare ai rapitori per individuare il covo. Ma per un movimento maldestro di un’auto civetta dei carabinieri, la strategia venne scoperta dai carcerieri e andò in fumo, decretando di conseguenza la condanna a morte del ragazzo.
Zagari racconterà anche che non avendo mai trovato un nascondiglio sicuro, Emanuele rimase per giorni chiuso nel bagagliaio di un’automobile. Per quell’omicidio brutale, gli esecutori materiali sono stati condannati in primo grado all’ergastolo per poi essere prosciolti per intervenuta prescrizione nel 1999.

Le scuse alla famiglia del sostituto procuratore

La mattina della requisitoria in Corte d’Appello a Milano nel processo sulla morte di Emanuele, a casa Riboli arriva la telefonata del sostituto procuratore generale Francesco Maisto. Le sue parole sono amare: «Oggi pomeriggio sarò costretto a chiedere l’assoluzione dei rapitori di vostro figlio. Vi chiedo perdono». Dopo poche ore in aula bunker, Maisto non nasconderà il suo rammarico per l’epilogo di una vicenda assurda e dolorosa: «La giustizia italiana, che qui umilmente rappresento, deve chiedere scusa ai genitori di Emanuele Riboli. Perché se i criminali che lo sequestrarono stanno per essere assolti e liberati – spiega Maisto – non è colpa del destino. Una incredibile serie di errori, di superficialità, di omissioni da parte dello Stato ha permesso che per anni i rapitori di Emanuele restassero sconosciuti, e ha poi fatto in modo che l’accusa contro di loro venisse cancellata dalla prescrizione».
Pochi giorni dopo in Parlamento, la deputata calabrese Angela Napoli in una interrogazione si rivolge al ministro della Giustizia parlando della beffa che i genitori Riboli hanno dovuto sopportare. «Le chiedo ministro – afferma  Napoli – se non ritenga opportuno disporre un’ispezione presso la procura della Repubblica di Milano diretta a verificare l’esistenza di irregolarità e ritardi che avrebbero provocato la prescrizione dei reati in oggetto. Poi ancora con quali criteri vengono fissate le priorità per i procedimenti giudiziari e se non ritenga opportuna, attraverso iniziative di carattere legislativo, una modifica, per i reati di particolare gravità, delle norme che regolano l’istituto della prescrizione».
Dal sequestro di Emanuele Riboli sono passati esattamente 50 anni, una vicenda drammatica, amara, senza giustizia. (f.veltri@corrierecal.it)

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