«… non c’è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa» (Dalla “Colonna Infame” di Manzoni).
Il primo novembre scorso, sull’esterno del Palazzo della Corte di Cassazione in piazza Cavour a Roma, è stata scoperta una targa dedicata a Donato Carretta, l’ex direttore del carcere di Regina Coeli che il 18 settembre 1944 venne trucidato dalla folla nel giorno del processo al questore di Roma, Pietro Caruso, quest’ultimo sì macchiato di infamia.
Sono passati 80 anni, ma la memoria è stata, per una volta, recuperata.
Giuseppe Fornari sulla rivista “Cosmopolis” osserva: «Siamo a Roma, poco dopo l’ingresso degli Alleati nella Città Eterna, nel momento più fosco della storia italiana del XX secolo. La popolazione è esacerbata dalle violenze del periodo di occupazione tedesca e soprattutto dall’episodio terribile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In quel giorno l’attenzione è catalizzata dal processo al questore di Roma Pietro Caruso, accusato di gravi responsabilità nel massacro. Davanti alla sede del processo, il “Palazzaccio”, la montagna di travertino e sculture ministeriali che cupa si innalza sulla riva sinistra del Tevere, si è radunata una folla pericolosamente ansiosa di ottenere giustizia. L’udienza viene però rinviata, e a quel punto la folla, temendo si volesse proteggere l’imputato, rompe il cordone delle forze dell’ordine ed entra nel cortile del tribunale al grido di “Morte a Caruso!”.
La sua attenzione viene a questo punto attirata da un altro uomo, l’ex-direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta, che era stato convocato come testimone a carico. Carretta è riconosciuto e vituperato da alcuni presenti, che lo accusano della morte dei loro congiunti: si distinguono in particolare una donna che aveva perso il marito e un’altra il cui figlio era stato torturato e ucciso dai tedeschi (una foto ha fermato quest’ultima, che punta l’indice accusatore con la bocca piegata in una smorfia, mentre Carretta di spalle cerca di discolparsi, i capelli impomatati di brillantina e il palmo aperto della mano destra, in un tentativo di difesa mimica e verbale).
La trappola mortale scatta. Carretta comincia a essere schiaffeggiato e malmenato (un altro testimone d’eccezione riprende la scena, Luchino Visconti, incaricato dagli Alleati di filmare il processo). L’ex-direttore riesce a scappare e tenta di nascondersi nei meandri dell’enorme falansterio, ma viene scovato. Si salva a stento per l’intervento di due ufficiali alleati e dei carabinieri, che più volte cercano di farlo allontanare in auto. Tutto è inutile, la massa riesce infine a impadronirsi del malcapitato, e riprende in grande stile il pestaggio. A un certo punto viene l’idea di stenderlo sui binari di un tram per farlo lacerare dal convoglio, ma il conducente del mezzo si oppone e si salva a sua volta dal linciaggio esibendo la tessera del P.C.I. Porta con sé la leva di azionamento del tram e l’auspicata mattanza così non riesce. Carretta, ormai ridotto a un tronco di sangue e tramortito, viene allora gettato nel Tevere, ma l’acqua rianima l’uomo, che cerca disperatamente di salvarsi a nuoto; senonché dei bagnanti, che stavano prendendo il sole sulla riva del fiume, rispondono prontamente alle grida di morte della folla e a bordo di due scialuppe, che il povero Carretta certamente sperava giungessero in suo aiuto, lo finiscono colpendolo con i remi, mentre altri si tuffano per spingerlo dove più forte era la corrente. L’affogamento è inevitabile. Il cadavere viene poi pescato dalla folla, trascinato al carcere di cui era stato direttore e appeso nudo a testa in giù alla grata di una finestra della facciata, in segno di ultimo scherno, e in modo che potesse vederlo la moglie, che si trovava lì vicino […]».
Walter Veltroni, quest’anno, ha scritto un libro sull’argomento, “La Condanna” (Rizzoli, 2024). Ecco un brano: «[…] Chi era Carretta? Un fascista o un antifascista? Oppure uno della “zona grigia”? Con la precisione del reporter e l’abilità dello scrittore, Giovanni [il giornalista che è l’io narrante del romanzo di Veltroni] ricostruisce la storia di una condanna controversa, brutale, di certo ingiusta. Indagando le pulsioni e la rabbia che agitano la folla di quel settembre 1944 rivede, nella Roma liberata dal fascismo e dall’occupazione nazista, gli strepiti e i livori che si muovono, velenosi, nelle relazioni di oggi, nella comunicazione, sui social».
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