La signora Antonietta fa la casalinga e ha tre figli: due alle scuole elementari, uno alle medie, che la burocrazia 2.0 chiama «Primarie» e «Secondarie di primo grado». Antonietta dice che non può aiutare i suoi «piccoli a studiare»: il marito lavora in Germania e lei ha «la casa sulle spalle», precisa. Tuttavia, alcuni insegnanti le hanno assicurato «strutturate attività di potenziamento delle competenze» dei suoi tre bambini, lontani dalla lettura come tanti altri iscritti alla scuola dell’obbligo. Quanto oggi si legge in classe e fuori? Che cosa, poi, si legge? Sono due domande che sfuggono allo sguardo dell’uomo contemporaneo, come se la qualità dei contenuti fosse secondaria nella fase dell’apprendimento e della formazione; come se leggere i classici non avesse senso, ritorno, valore, nonostante l’indimenticabile lezione di Nuccio Ordine sull’utilità della grande letteratura. Peraltro, circa 2000 anni fa, Seneca ammoniva che «l’ozio senza lettura è come morire ed essere sepolti vivi». Dal canto suo, Federico Batini, professore universitario di Pedagogia, sostiene che leggere ad alta voce, anche in condivisione, giovi al cervello, tanto dei giovani quanto degli anziani con malattie degenerative. Inoltre, Gianni Rodari, a proposito dell’esperienza delle cose del mondo, cioè «la palestra della vita» cantata da Renato Zero nel suo brano “Marciapiedi”, scrisse che «di imparare non si finisce mai, e quel che non si sa è sempre più importante di quel che si sa già». La didattica di oggi stimola, già dalle Primarie e dalle Secondarie di primo grado, la curiosità, la voglia di approfondire e conoscere, l’approccio interdisciplinare degli alunni nell’analisi di fatti, fenomeni e contesti?
Diplomata alla ragioneria, Antonietta si lamenta della quantità e del peso dei testi scolastici dei propri bambini: più di una ventina di volumi all’anno e zaini da 10 chili e passa sulle spalle. Sono costi materiali in ogni senso, pure per le schiene dei bambini. Si obietterà che è il peso del sapere. Però, sino alla fine degli anni Novanta, ricorda la nostra interlocutrice, «i ragazzi dividevano i testi scolastici da portare a scuola»: su ogni banco ce n’era uno solo per i due studenti lì seduti.
Ma quali erano quei libri? Risponde Luigi, ingegnere, classe ‘78, dagli inizi del nuovo millennio affezionato lettore di Umberto Eco e John Ronald Reuel Tolkien. «Natalino Sapegno – elenca – per la Letteratura italiana, Vittorio Tantucci per la Grammatica latina, che su eBay ti costa 100 euro di seconda mano. Avevamo anche l’“Eneide” curata da Adriano Bacchielli, un capolavoro; poi il manuale di Filosofia di Abbagnano-Fornero e quello di Antonio Brancati per la Storia». E quindi? «Quindi – spiega Luigi – usavamo dei testi che ci abituavano alla complessità, intanto perché erano scritti bene e dunque ti obbligavano a ragionare e ad aprire il vocabolario, a ritenere in mente parole che non avevi mai sentito, a comprendere l’importanza della forma espositiva, la ricchezza e la profondità del linguaggio. Ti insegnavano, insomma, che la forma è sostanza. D’altra parte, Eco, per esempio, si divertiva a comporre dei pangrammi, che sono frasi di senso compiuto contenenti tutte le lettere dell’alfabeto». Per esempio? «“Ma che bel gufo spenzola da quei travi”, tra i più noti, che non credo sia di Eco. Sembra un gioco, un passatempo. Ma abbiamo presente la vuotezza di oggi che emerge dai post pieni di emoticon, banali, carichi di sensazionalismo e povertà di pensiero?». Qualcuno replicherebbe che via via cambiano la mentalità, le risorse culturali della didattica, i modi di esprimersi e la forma della mente vera e propria; che ogni tempo ha le sue caratteristiche, cifre, tendenze; che l’enorme e immediata disponibilità di dati circolanti è un vantaggio immenso per la scuola del presente e del futuro. «Sì, ma i dati – ribatte Luigi – bisogna saperli cercare e verificare. Allora combini un casino, se non hai in “zucca” l’insegnamento metodologico di Eco, Abbagnano e Tantucci, o di gente come loro». Quella di Luigi è un’impostazione radicale, che potrebbe essere vista come nostalgia per il passato, mentre i tablet sono entrati nelle scuole e l’Intelligenza artificiale lavora anche nelle stanzette dei ragazzi, nativi digitali e forse per questo più avvezzi alle mappe concettuali dei libri scolastici di oggi, basati sulla rappresentazione grafica come le icone del Macintosh di Steve Jobs.
Francesco, che si descrive come «papà polemico e antisistema», rammenta che «nelle stazioni ferroviarie tolsero le fontane e le panchine». L’uomo aggiunge che «in testa ai binari ora ci sono schermi di distrazione di massa, già sperimentati negli uffici postali». E teorizza: «È tutto concepito per piegare la persona al mercato, ai consumi. Il capitalismo ha trovato mille modi di confondere la mente, di bombardarla di messaggi pubblicitari, di allontanarla dal confronto. Dentro le Poste, una volta i pensionati si scambiavano informazioni, magari anche sulle loro piccole pensioni estere. Ora sono addirittura costretti ad aspettare fuori, pure con il freddo. L’obiettivo di queste operazioni è chiaro: spostare l’attenzione sul frivolo, ostacolare il dialogo tra persone e creare un essere umano che, centrato su se stesso, pensi soltanto a spendere per compiacersi davanti allo specchio». «E che cosa c’entra con la scuola?», chiedo senza riserve. E lui: «C’entra e come, perché con le prove Invalsi si vogliono produrre intelligenze standardizzate e con le mappe concettuali si fabbricano studenti che non guardano più avanti del loro naso, che accettano paraocchi rassicuranti, che si accontentano di sballarsi il sabato sera; che molto spesso non hanno passioni, coscienza politica, senso civico, spirito di comunità; che non hanno punti in comune al di fuori dei consumi personali; che non sanno organizzare un dissenso programmato e programmatico per il loro futuro, fatto di contratti a intermittenza e probabilmente senza la sanità pubblica, la pensione, la casa e le pari opportunità, quelle vere». E tutto ciò dipenderebbe dai libri scolastici? «Non solo – risponde Francesco – ma anche. Domandiamoci quanto conti il tema di italiano nella scuola di oggi, ancora sospesa fra analogico e digitale, iperburocratica, rimasta con pochi finanziamenti statali e obbligata a cercare fondi presso privati, a proporre progetti per acchiappare pochi spiccioli e così gratificare gli insegnanti, mortificati e spesso succubi, rassegnati a questa caccia al tesoro, che è una giungla».
«Con il peso dei libri vogliono abituare i giovani al fardello della conoscenza», ironizza la signora Gianna, avvocato e madre di due gemelle che frequentano le scuole secondarie di primo grado. Ma, ironizza di seguito, «nell’Apocalisse di Giovanni, sarebbe un tascabile, non un mattone, il libro aperto che in una mano tiene l’angelo che sta in piedi sul mare e sulla terra». E che cosa significa? «Non vorrei essere fraintesa, non inneggio – chiarisce Gianna – alla bignamizzazione del sapere. Dico soltanto che un tempo erano il maestro e il docente a dare l’impronta, a trasmettere le proprie conoscenze agli alunni, a farli interagire e approfondire stimolando domande a ripetizione». E ora? «Adesso i ragazzi sono riempiti di libri, e questo è indicativo di una finzione scenica: montagne di libri scolastici infarciti di schemini nascondono, insieme al dominio di acronimi ed eccessi burocratici, il declino dell’istruzione pubblica, causato da tagli micidiali delle risorse e dalla conseguente rassegnazione di professori e genitori. In quanto alle domande degli studenti, esse sono molte volte eventuali e marginali, perché la mentalità dominante è che il gregge deve andare in un’unica direzione. Guai a dubitare, criticare, contraddire». Sulla didattica partecipativa c’è un bel libro a cura di Alfonso Maurizio Iacono e Sergio Viti, un filosofo e un maestro elementare, pubblicato quasi 25 anni fa: “Le domande sono ciliege. Filosofia alle elementari”. Era un tentativo di trasformare la classe in agorà, la lezione frontale in discussione aperta. Oggi la politica saprebbe riprendere quell’indirizzo didattico?
Dal banco del suo tabacchino, Marina, che ha una figlia all’università e un figlio al liceo, difende i professori e fa autocritica. «Noi genitori – esordisce – abbiamo grosse responsabilità, anzitutto perché crediamo che i nostri ragazzi siano i migliori, perfetti, inappuntabili, esemplari; il che non è vero. Molte volte ci sfuggono le dinamiche di classe, le paure individuali dei nostri figli, i loro problemi, le loro difficoltà relazionali, le loro chiusure rispetto a fenomeni di emarginazione o bullismo dentro la scuola. Ciò perché abbiamo perduto la capacità e perfino la voglia di discutere con i docenti. Agli incontri scolastici non viene quasi nessuno dei genitori. Fare il rappresentante di classe è visto come un compito fastidioso. Invece io penso di avere un privilegio, visto che ricopro questo ruolo, grazie al quale posso ascoltare i professori e capire come vanno le cose, anche in presenza di mio figlio, eletto nel Consiglio di classe. Quale esempio diamo ai nostri figli, se ci teniamo lontani dalla scuola, che richiede la collaborazione attiva dei genitori?». È una visione vicina a quella del procuratore Nicola Gratteri, che di recente ha affermato: «Purtroppo carichiamo sulla scuola un peso enorme, perché la famiglia c’è molto meno oggi rispetto a 30 o 40 anni fa. Oggi avremmo bisogno di una scuola più attrezzata e a tempo pieno, di insegnanti pagati meglio. Per fare questo, bisogna finanziare le scuole perché è lì che noi possiamo togliere dalla strada i ragazzi, visto che molte famiglie già sono assenti o poco presenti».
Tullio Laino, già vicedirettore sanitario dell’ospedale di Cetraro, incalza: «Aziendalizzare la sanità e la scuola è stato l’errore più grave. Le aziende devono produrre utili, la sanità deve garantire salute e la scuola deve formare il coraggio e il giudizio critico nelle nuove generazioni». Quantità, forma e contenuti dei testi scolastici sono, insieme alle modalità didattiche e alla burocrazia sovrabbondante dell’istruzione pubblica, questioni di cui la politica dovrebbe tornare a occuparsi, anche quella calabrese, possibilmente con un impegno convinto per aumentare i fondi destinati alla scuola.
Nel luglio 2023, il senatore dem Nicola Irto ha presentato una proposta di legge per «favorire e implementare azioni e strumenti per la promozione e la diffusione della lettura in età prescolare», attraverso – è scritto nella relazione introduttiva – «la creazione di reti e il sostegno di progetti e laboratori, un rafforzamento infrastrutturale in termini di dotazione libraria e della rete locale delle biblioteche di pubblica lettura, nonché la creazione di piccole biblioteche negli asili nido e nelle scuole dell’obbligo». Tra l’altro, la stessa pdl contempla «l’istituzione o il supporto di presìdi e di iniziative di lettura negli studi pediatrici, nei reparti o negli spazi ambulatoriali degli ospedali, nei consultori e nei centri vaccinali». La proposta di legge include, inoltre, «l’adozione di un Piano triennale per la lettura in età prescolare». «I dati a disposizione – ha puntualizzato Irto – mostrano che solo il 45,1 per cento della popolazione con un’età superiore ai 6 anni ha letto un libro nel corso dell’ultimo anno e solo l’11,7 per cento della popolazione frequenta le biblioteche. Più di 2 milioni di persone di età compresa tra i 15 e i 65 anni, pari al 5,4 per cento della popolazione, risultano analfabete funzionali». «La “domanda di salute” non può più essere rivolta – ha auspicato il parlamentare del Pd – solo alla cura di patologie del corpo, ma deve mirare anche al corretto sviluppo neuronale e delle funzioni cognitive ed emotive».
Nell’intervista che rilasciò al Corriere della Calabria il 27 ottobre 2023 (qui il link), il sociologo Derrick de Kerchove avvertì: «Ormai la nostra identità si crea fuori del nostro essere, non più dentro. Quando avevo 13 o 14 anni, cominciavo ad avere le mie idee, facevo le mie letture, mi confrontavo con gli amici ma avevo già una coscienza interna di chi fossi. I ragazzi di oggi, invece, si prendono sul serio a condizione che siano conosciuti, visti, apprezzati, che ricevano like, commenti e così via». Il sociologo poi raccomandò: «Si legga allora sulla carta, non su qualche schermo. Sei tu, se leggi sul cartaceo, il padrone della parola. Allora non vieni indirizzato, plasmato dal sistema, non vieni invaso dagli algoritmi. Ancora, la scuola dovrebbe abituare i ragazzi a imparare le poesie con il cuore, a mettere contenuti in testa, che ormai è divenuto un corridoio di passaggio, non una stanza, un palazzo interiore dove si accumulano contenuti pertinenti. Creare un contenuto vuol dire creare una situazione in cui tu ti impossessi della parola, invece di subire i danni delle nuove tecnologie».
Stavolta abbiamo voluto dare un contributo articolato al dibattito sulla scuola, sulla lettura, sull’istruzione, sulla conoscenza, sullo sviluppo dell’autonomia e del giudizio critico dei ragazzi. Tutti temi che chiamano in causa la responsabilità di docenti, famiglie e istituzioni pubbliche. (redazione@corrierecal.it)
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