Carl Gustav Jung è stato certamente uno dei giganti del Novecento. Svizzero, psichiatra, allievo di Freud, ruppe irrimediabilmente con il suo maestro, che lo aveva designato come suo naturale erede. Una rottura ideologica ma anche personale che gli causò un isolamento nella nascente comunità psicanalitica e una lunga sofferenza personale. Senza ripercorrere i motivi della rottura è importante invece sottolineare la natura della sua sofferenza raccontata nella autobiografia postuma.
Una dimensione di frammentazione personale che lo porterà prima a pensare al suicidio, poi a vivere con il timore della morte. In questa solitudine, Jung ripercorrerà la sua vocazione trascendentale, peraltro determinata dalle origini di figlio di un pastore luterano. Troverà consolazione in una sorta di illuminazione dell’anima, anche con esperienze metafisiche che lo aiuteranno a elaborare la sua teoria sull’inconscio. Racconterà l’esperienza di pre morte vissuta dopo l’infarto, sul finire della seconda guerra mondiale. Dovrà difendersi dalle ingiuste accuse di essere stato simpatizzante del nazismo ma riemergerà non senza distinguersi nella sua propensione interpretativa che contemplerà anche una sorta di apertura alla religiosità e alla definizione di anima.
Sei anni di sofferenza mascherate in una condizione di forza che definirà “demoniaca”. La sua chiave di lettura antropologica considererà la nevrosi un punto di forza per la creatività. La paura della morte lo abbandonerà progressivamente. Proprio sul finire della vita, in un documento a Bollingen, la sua storica residenza, affermerà di “Sapere ormai tutto”. Con il sorriso sul volto.
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