VIBO VALENTIA Il vincolo familiare e gli arcaici legami associativi, pilastri che hanno consentito alla ‘ndrangheta di non essere “scalfita” per decenni dalle numerose operazioni. Clan basati su intere famiglie con l’eredità criminale che si tramanda da padre a figli cresciuti a pane e ‘ndrangheta. È grazie, principalmente, a questi due fattori che nella sua decennale storia la criminalità organizzata calabrese ha avuto al suo interno pochi pentiti. Un aspetto che ne ha garantito la crescita e la sua credibilità soprattutto all’estero. «Le ‘ndrine sono considerate credibili per la loro durezza e perché negli anni, rispetto al numero di ‘ndranghetisti, ha lasciato indietro veramente pochi collaboratori di giustizia» ha spiegato il procuratore Nicola Gratteri in un’intervista di pochi mesi fa. Contesto che ancor più rende emblematico, in senso contrario, il caso della ‘ndrangheta in provincia di Vibo Valentia: negli ultimi 10 anni un vero e proprio “boom” di collaboratori di giustizia, per ultimo il killer dei Bonavota Francesco Fortuna. Un esponente di spicco che si unisce ai tanti altri sulle cui dichiarazioni si sono di fatto “plasmate” le numerose inchieste e le centinaia di arresti.
La prima forte “scossa” del terremoto che di lì a poco scuoterà la ‘ndrangheta vibonese è il pentimento di Raffaele Moscato nel 2015. Al vertice dei Piscopisani, le sue dichiarazioni porteranno alla disarticolazione del locale radicato nella frazione vibonese, facendo anche luce su diversi omicidi e sulla faida contro i Mancuso-Patania. Moscato racconta delle intenzioni della ‘ndrina di Piscopio di “rimpiazzare” la più potente famiglia di Limbadi. Stessi propositi che si era prefissato, con il suo gruppo vibonese, Andrea Mantella, prima di decidere di saltare il fosso nel 2016. Boss del clan Lo Bianco, si era poi “scisso” per creare un gruppo autonomo che, in virtù di alleanze con altre ‘ndrine, come i Bonavota, si sarebbe dovuto opporre ai Mancuso. Sulle sue dichiarazioni, quelle di Moscato e sulle audizioni di Bartolomeo Arena, altro rampollo della ‘ndrangheta vibonese pentitosi nel 2019, si costituirà la maxi inchiesta Rinascita Scott che porterà alla condanna di 207 persone in primo grado. In questi anni si pentono anche Giuseppe Comito, legato ai Mancuso e vicino ai Patania, che ha versato fiumi di inchiostro sulla faida con i piscopisani. Della ‘ndrangheta del capoluogo seguiranno Michele Camillò, esponente dell’omonima famiglia, e Gaetano Cannatà, appartenente alla cosca dei Lo Bianco – Barba.
Ancora più emblematico e storico è il pentimento di Emanuele Mancuso, ex rampollo dell’omonimo clan di Limbadi, avvenuto nell’estate 2018. Il primo a creare una breccia nella ‘ndrina più potente di Vibo e tra le più potenti della Calabria. Soprattutto perché non si tratta di un semplice affiliato al clan, ma di un membro della famiglia. Tanto che in diversi modi, soprattutto con minacce, è stato cercato di farlo tornare sui suoi passi. Una “triade” – quella di Moscato, Mantella, Mancuso – di collaborazioni che scatena il terremoto nella ‘ndrangheta vibonese, dal momento che coinvolge le tre ‘ndrine più potenti e sanguinarie della provincia. A loro si uniscono le figure di Bartolomeo Arena, che ha rivelato sulle “nuove leve” delle ‘ndrine del capoluogo, e Nicola Figliuzzi, legato sia alla criminalità delle Preserre che ai Patania di Stefanaconi. Tra il 2019 e il 2020 anche Salvatore Schiavone, originario di Nicotera, così come Renato Marziano, reso pubblico solo di recente. Vicino anche lui ai Piscopisani, ha spiegato di aver «smesso di credere nei valori di lealtà e rispetto della ‘ndrangheta».
A far tremare la ‘ndrangheta delle Preserre è, soprattutto, Walter Loielo, esponente dell’omonima famiglia di Gerocarne. Lo stesso ha fatto luce su diversi omicidi della sanguinosa faida contro gli Emanuele, ma anche su quello del padre Antonino Loielo, ucciso dal figlio per vicende familiari. Nel 2023 arrivano tre pesanti collaborazioni, in quello che è stato un anno “nero” per le cosche vibonesi tra blitz, inchieste e le oltre 200 condanne di Rinascita Scott. Ma anche e soprattutto per la decisione di pentirsi di Antonio Accorinti, figlio del presunto boss Nino e che è stato ascoltato da poco nel processo Maestrale, di Pasquale Megna, altro elemento di spicco legato ai Mancuso, e soprattutto quella di Onofrio Barbieri, al vertice della ‘ndrina Bonavota di Sant’Onofrio. Proprio Barbieri ha rivelato di tre omicidi, quelli ai danni di Alfredo e Raffaele Cracolici e di Domenico Belsito. Per questo è stato condannato Francesco Fortuna, il killer dei Bonavota che in estate ha deciso di percorrere la stessa strada e di collaborare con la giustizia, notizia resa pubblica solo ieri. L’ultimo di una lunga fila: in soli 10 anni, quasi tutte le ‘ndrine vibonesi sono state coinvolte da almeno un pentito. Ognuno, per motivi diversi, ha infranto un muro d’omertà durato decenni. «Per troppo tempo lo Stato a Vibo ha dimostrato superficialità» ha detto di recente il procuratore Camillo Falvo, sottolineando però il cambiamento radicale degli ultimi anni. Un cambio di rotta, segnato anche dalle numerose operazioni delle forze dell’ordine, probabilmente percepito anche da chi, per motivi diversi, ha deciso di collaborare la giustizia. (Ma.Ru.)
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