ROMA Un’articolata struttura imprenditoriale su cui il clan di ‘ndrangheta Mazzaferro poteva contare sul territorio romano per far funzionare tutti gli ingranaggi del sistema messo in piedi per ripulire i soldi sporchi attraverso operazioni finanziarie, impiegando rapporti bancari, nazionali ed esteri, riconducibili a società compiacenti, con lo scopo di rafforzare economicamente la cosca. Come dimostrato dall’inchiesta della Dda di Roma che ha portato all’arresto di 25 persone, il clan di Marina di Gioiosa Ionica, con “locali” e diramazioni in Italia e nel Mondo, poteva contare su soggetti prestanome e fiancheggiatori reclutati tra compiacenti professionisti e imprenditori con esperienze nei settori commerciali propedeutici alle operazioni di avviamento, gestione, direzione e controllo delle società da adoperare nella commercializzazione dei prodotti petroliferi. Il clan, dunque, secondo quanto emerso, avrebbe operato attraverso una pluralità di imprese affidate a soggetti prestanome, strumentali proprio alla realizzazione di frodi: «società “serventi” la commercializzazione di prodotti petroliferi con le conseguenti frodi fiscali».
Tra loro spicca la figura dell’imprenditore romano Alessandro Toppi: saranno infatti proprio i rapporti – documentati attraverso intercettazioni – con quest’ultimo a svelare le fitte trame di relazioni nel comparto petrolifero con Vincenzo e Salvatore Mazzaferro e Nicolò Sfara, e far scattare l’inchiesta. Ma non solo. Infatti, secondo quando emerso dalle indagini, l’imprenditore ha intessuto rapporti anche con altri gruppi criminali attivi nella Capitale, come la cosca di ‘ndrangheta Alvaro di Sinopoli, Reggio Calabria, e la famiglia romana riferibile al defunto Enrico Nicoletti, il “cassiere” della Banda della Magliana.
Toppi, come accertato dalla Guardia di Finanza, risulta detentore – si legge nell’ordinanza – «di cariche e/o partecipazioni in diverse compagini societarie che operano in svariati settori commerciali. In questi ambiti si collocano i suoi rapporti con la famiglia Mazzaferro risalenti almeno all’anno 2017». Secondo quanto emerso dalle indagini, la società di cui è formalmente titolare l’imprenditore Toppi con la moglie, è di fatto riconducibile a Sfara e di conseguenza al gruppo Mazzaferro, almeno fino alla data del 20 marzo 2019, quando Toppi ha ceduto l’intero capitale sociale a un soggetto contiguo a un clan di camorra, lasciando peraltro all’oscuro della cessione Sfara, il quale appena venuto a conoscenza dell’operazione, «evidentemente vissuta come un vero e proprio affronto» – scrive il gip, si è mostrato determinato a risolvere la questione ricorrendo alla logica mafiosa della violenza, portando l’imprenditore a fuggire in Albania.
Rapporti con i Mazzaferro ma non solo. Dagli accertamenti è stata rilevata, inoltre, una serie di contatti, telefonici, oltre che alcuni de visu, intrattenuti da Toppi con il pregiudicato calabrese Vincenzo Alvaro (cl. ‘64), arrestato nel maggio 2022 nell’ambito dell’inchiesta “Propaggine” della Dda di Roma, l’indagine che ha permesso di ricostruire le dinamiche criminali intorno alla cosca attiva a Sinopoli, Cosoleto e San Procopio e alla prima “locale” attiva a Roma, ad Anzio e Nettuno, che operava nella Capitale dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria.
«Tali contatti – scrive il gip nell’ordinanza – sono stati indirizzati, oltre che all’avvio di nuovi rapporti d’affari con Alvaro – si fa riferimento in particolare all ‘ingresso di questi ultimi in una società attraverso l’utilizzo di prestanome – anche alla condivisione di un’importante operazione immobiliare, nella quale risultava coinvolto anche Massimo Nicoletti», figlio del “cassiere” della Banda della Magliana. Nel corso di una conversazione, in particolare, emerge come Toppi «stesse costituendo una nuova società con Alvaro, avvalendosi, in tal senso, di prestanome cui attribuire la titolarità della stessa». (m.ripolo@corrierecal.it)
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