LAMEZIA TERME Sono donne vittime due volte: le violenze dei compagni e dei mariti da una parte, dall’altra quelle subite per mano della criminalità organizzata che, da entità quasi astratta, si manifesta in tutta la sua ferocia violenza e spietatezza. Storie di vite spezzate, vittime innocenti di una mano criminale, sanguinaria, che non fa sconti a nessuno. Neanche a mogli e madri che non si sono piegate a imposizioni e leggi arcaiche che rispondono ai codici della ‘ndrangheta. Sono anche loro donne vittime della violenza becera che il 25 novembre di ogni anno si ricordano, nel tentativo di sovvertire questo terribile paradigma.
Sono passati esattamente 15 anni dall’omicidio di Lea Garofalo, sequestrata e uccisa in un appartamento di piazza Prealpi, a Milano. Il suo aguzzino è Carlo Cosco, uno degli elementi di punta dei clan di ‘ndrangheta di Petilia Policastro a Milano. Bisognerà attendere il 2012 prima di ritrovare i suoi resti, vicino Monza, grazie alla testimonianza di uno dei suoi aguzzini. Lea Garofalo era una testimone di giustizia, agli inquirenti aveva raccontato i dettagli di alcuni fatti di ‘ndrangheta riguardanti la sua famiglia: lo spaccio della famiglia Cosco, la faida interna e la morte del fratello, Floriano Garofalo, avvenuta nel 2005. Nel 2009 decide di uscire dal programma di protezione. Scelta che, purtroppo, le sarà fatale. A Campobasso riesce a sfuggire ad un primo agguato, ma a Milano troverà la morte per mano di Carlo Cosco che riesce ad incontrarla con la scusa di parlare della figlia. È il 24 novembre del 2009.
Per Maria Chindamo e la sua famiglia è arrivato il momento della verità. Non ha ancora un nome e cognome il suo assassino, ma quest’anno – a 8 anni dalla sua scomparsa del maggio 2016 – è partito il processo in Corte d’Assise a Catanzaro contro Salvatore Ascone. L’uomo, classe 1966, detto “U Pinnularu” è uno di quelli che pesa all’ombra della potente cosca Mancuso di Limbadi. È ritenuto dall’accusa concorrente nell’omicidio di Maria Chindamo perché «unitamente a suo figlio Rocco Ascone (minorenne all’epoca dei fatti), provvedeva a manomettere il sistema di videosorveglianza installato presso la sua proprietà, limitrofa a quella della Chindamo, in modo da impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà della imprenditrice, fornendo così un contributo alla commissione dell’omicidio della donna. La mattina del 6 maggio 2016 l’autovettura di Maria Chindamo fu trovata in contrada “Carini” di località Montalto, abbandonata davanti al cancello d’ingresso della sua azienda agricola, ancora chiuso. L’auto è aperta, con il motore ancora acceso e l’impianto stereo a tutto volume. Ma della donna non c’è traccia solo una vistosa macchia di sangue sulla fiancata sinistra della carrozzeria dell’auto e sull’area circostante. Due i possibili moventi: il suicidio del marito Ferdinando Punturiero per il quale Maria Chindamo «fu ritenuta dai familiari del marito responsabile». L’altro è legato all’interesse della cosca Mancuso di Limbadi nell’acquisizione terriera.
L’elenco delle storie di donne uccise seguendo le logiche della ‘ndrangheta è lungo. C’è Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto del 2011 a 31 anni dopo aver ingerito dell’acido muriatico, vittima della sua famiglia proprio perché aveva deciso di ribellarsi alle logiche ‘ndranghetiste, pagando con la propria vita l’essersi rivolta ai carabinieri a maggio di quello stesso anno. Suo padre, Michele Cacciola, era il cognato del boss di Rosarno, Gregorio Bellocco. Lei, invece, prigioniera del matrimonio con Salvatore Figliuzzi, già in carcere nel 2002. Maria Concetta sogna una vita fuori dalla “prigione” di casa sua, un mondo migliore per i suoi figli. Un sogno che le costerà la vita. Qualche anno dopo tutti i suoi familiari finiscono arrestati. Vengono arrestati e condannati col rito abbreviato. Finiscono in galera anche Vittorio Pisani, divenuto poi collaboratore di giustizia, e Gregorio Cacciola, i due avvocati che avevano costretto la donna alla ritrattazione.
E poi Tita Buccafusca, morta nell’aprile del 2011 a 37 anni all’ospedale di Polistena dove era stata ricoverata dopo aver ingerito, anche lei, acido muriatico. La donna, moglie di uno dei più importanti e potenti boss della ‘ndrangheta vibonese (e non solo) Pantaleone Mancuso “Luni Scarpuni”, aveva deciso di collaborare con la giustizia e di chiedere protezione. C’è poi la storia terribile di Rossella Casini, studentessa di 25 anni vittima anche lei della ferocia della ‘ndrangheta. La sua vita cambierà drammaticamente dopo aver conosciuto Francesco Frisina, studente fuori sede di Economia, originario di Palmi. Il 4 luglio del ’79 due sicari uccidono Domenico Frisina, padre di Francesco che, poche settimane dopo, sfuggirà miracolosamente ad un altro agguato. Casini convince allora il compagno a denunciare tutto ma è un tradimento che la famiglia calabrese non può perdonare: Francesco viene convinto a ritrattare, lei verrà uccisa e fatta a pezzi da Domenico Gallico e Pietro Managò su ordine di Concetta, la sorella di Francesco.
Per delineare e comprendere l’anticultura ‘ndranghetista e la ferocia della mentalità criminale delle famiglie, basta richiamare alla memoria la storia di Annunziata Pesce, sparita agli inizi degli anni ’80. Per anni si parlava di una donna “scomparsa” nella zona della Piana, ma non ci si ricordava nemmeno più il nome. Sarà poi Giusy Pesce, collaboratrice di giustizia, a fare il suo nome nel maggio del 2012 nell’aula bunker di Rebibbia rispondendo alla Corte. In quell’occasione le era stato chiesto se sapesse qualcosa di questa ragazza e lei dice «Sì, era una mia parente e si chiamava Annunziata». Dopo oltre 40anni, dunque, in un luogo pubblico era stato fatto nuovamente il suo nome.
Altra storia di violenza, rimasta sepolta per anni, è quella di Angela Costantino. Sposata ad appena 16 anni, quando ne aveva 25 aveva già messo al mondo quattro figli. Il marito, però, non era un uomo qualunque. Pietro Lo Giudice, infatti, era il figlio del capocosca Giuseppe, ucciso a giugno del 1990, nel luogo scelto come “soggiorno obbligato”, alle porte di Roma. I Lo Giudice comandavano sul quartiere “Santa Caterina” di Reggio Calabria, finita al centro della violenta e sanguinosa seconda guerra di ‘ndrangheta che si è consumata tra il 1985 e il 1991. Il marito di Angela era rinchiuso già in carcere e senza alcuna prospettiva di libertà e lei commette l’errore fatale di innamorarsi di un altro uomo. Non passa troppo tempo e i Lo Giudice scoprono la relazione, la pedinano, la minacciano, e la costringono ad abortire quando scoprono che portava in grembo il figlio di un altro uomo che non era suo marito. Un “disonore” che i Lo Giudice vendicano con la morte. Dal 16 marzo 1994 di Angela Costantino non si saprà più nulla, di lei resta solo la sua Panda ritrovata a Villa San Giovanni. Per far luce sulla terribile storia bisognerà attendere l’aprile del 2012. Saranno i fratelli Maurizio e Nino Lo Giudice, nuovi collaboratori di giustizia, a spiegare l’accaduto ai magistrati. Dalle loro dichiarazioni scatta poi il blitz, l’arresto di 12 persone tra cui i responsabili dell’omicidio di Angela ovvero Vincenzo Lo Giudice, uno dei capi della ‘ndrina, Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, rispettivamente suo cognato e suo nipote. Tutti condannati a 30 anni per quell’accordo di famiglia per l’avara col sangue l’onta del disonore. (g.curcio@corrierecal.it)
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