COSENZA Si torna in aula, in Corte d’Assise a Cosenza, per il processo sull’omicidio di Rocco Gioffrè, pensionato cosentino assassinato da Tiziana Mirabelli reo confessa e unica imputata che ha sempre asserito di aver agito per legittima difesa. Le parti offese Francesca, Pasquale e Giovanna Gioffrè sono rappresentate dall’avvocato Francesco Gelsomino. L’imputata, invece, è difesa dall’avvocato Cristian Cristiano.
È Francesca Gioffrè, figlia della vittima, la prima testimone dell’odierna udienza. Il suo sarà un racconto condito da diversi “non ricordo” e da alcune discrepanze rispetto a quanto dichiarato nell’interrogatorio reso dopo l’omicidio.
«Ho visto mio padre la sera del 13 febbraio (inizialmente riferirà di averlo fatto il 14 febbraio, giorno della scomparsa di Gioffrè) sono andata via alle 20.20 e stava cenando. Andavo da lui tutti i giorni. L’ho visto poco tranquillo l’ultima sera e mentre andavo via mi ha detto “che fai mi lasci”? Non avevo compreso potesse essere una richiesta di aiuto». La donna ammette di aver «ricevuto un whatsapp dal telefono di mio padre “Mi trovo a San Fili con un amico, mi sono preso un momento per me, non allarmare mezzo mondo“, seguirà un altro messaggio “Non mi chiamare, che ti chiamo io“». La figlia della vittima – in aula – riferisce una circostanza mai emersa relativa ad un appellativo “Figlicè” utilizzato da chi avrebbe inviato i messaggi dal cellulare del padre, poi cancellati con “l’opzione elimina tutti”. «Mio padre mi chiamava e non mandava whatsapp, non era pratico», ammette. Sul punto, in sede di controesame, interviene l’avvocato Cristiano. «Dai tabulati non risulta nessuna cancellazione dei messaggi e neanche la loro ricezione. Non risultano neanche le telefonate che la testimone dice di aver fatto al padre». La testimone, in aula, ribadisce la bontà delle dichiarazioni rese.
«Tiziana Mirabelli era di casa», risponde la teste sollecitata dalle domande del pubblico ministero. «La signora è venuta a prendersi un caffè a casa di papà. Quando le ho detto che non c’era ha risposto dicendo che aveva bisogno di svagarsi e che l’aveva visto entrare in una macchina di colore scuro con un signore con la barba». Passano le ore, dal 14 febbraio di Gioffrè non si hanno notizie. La figlia Francesca inizia a preoccuparsi anche se quei messaggi ricevuti la lasciano serena. «Non abbiamo sporto denuncia perché ero contenta fosse uscito e non immaginavo altro». Nulla poteva farle pensare al tragico epilogo e quando le viene chiede conto delle ferite rinvenute sulla mani dell’imputata, la teste precisa: «aveva delle ferite alle dita e mia sorella le ha curate, disse di essersi bruciata con una macchinetta del caffè».
C’è un altro nodo che accusa e difesa affrontano nel corso dell’esame e del controesame della teste, quello riferito alla presenza della cassaforte in casa Gioffrè rinvenuta «aperta» e «completamente svuotata dei contanti presenti all’interno». La vittima, come sottolineano i figli, vi custodiva «contanti e bancomat». «In cassaforte erano presenti più o meno 10mila euro, papà metteva i soldi da parte per l’operazione di mio fratello vittima di una caduta dal quinto piano di una impalcatura (resterà in coma due mesi riportando danni al cervello avrà modo di asserire l’avvocato Francesco Gelsomino, ndr)».
La circostanza legata alla cassaforte, Francesca Gioffrè dice di averla appresa da suo fratello. «Mi ha chiamata per dirmi che era aperta e che i soldi erano spariti». Nella testimonianza resa ai carabinieri, tuttavia, la donna racconta della presenza in casa del fratello e di essere arrivata successivamente, quando lo stesso stava dormendo. In aula, invece, riferisce di averlo trovato sveglio nella «stanza di mia mamma». L’avvocato Cristiano mostra alla Corte i frame del video della telecamera installata a casa della vittima che cattura l’ingresso nell’appartamento – «nello stesso momento» – di Francesca Gioffrè e di suo fratello. Perché la cassaforte viene trovata chiusa? Ci sono altre chiavi oltre a quella nella disponibilità di suo padre? Chiede il legale. «Non ci sono altre chiavi», risponde la teste. Che nulla aggiunge sul perché fosse stata ritrovata chiusa.
Che tipo di rapporto c’era tra la vittima e l’imputata? «Ho visto mio padre dare a Tiziana Mirabelli del denaro e poi delle sigarette e del pane. Le dava accesso anche all’utilizzo della corrente elettrica con dei fili che collegavano i contatori delle due abitazioni». I “collegamenti” tra gli appartamenti sono oggetto di approfondimento da parte del pm e dell’avvocato del collegio difensivo. «Il bagno di casa della vittima dava accesso ad un terrazzo comunicante con l’abitazione di Mirabelli, diviso da un muretto alto un metro».
Perché Gioffrè si recava a casa Mirabelli utilizzando il passaggio comunicante sul terrazzo? Chiede l’avvocato Cristiano. La teste risponde: «C’era qualcosa che papà non ci diceva evidentemente. Andava dal terrazzo e tornava dalla porta, almeno quando c’ero io».
Un rapporto dai contorni ancora poco chiari quello tra la vittima e la donna imputata del suo omicidio. La figlia esclude una relazione sessuale, «aveva un debole per lei e c’era molta affinità. C’è stato un momento in cui non andavano d’accordo, durato qualche anno». (f.benincasa@corrierecal.it)
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