LAMEZIA TERME Gli elementi indiziari sussistenti a carico di Emanuele e Francescantonio Stillitani «non sono dotati di adeguata efficacia probatoria da fondare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’emissione di una pronuncia di condanna». Così si sono pronunciati i giudici del Tribunale di Lamezia Terme (Angelina Silvestri presidente, Maria Giulia Agosti e Gian Marco Angelini giudici) nelle quasi 2mila pagine di motivazioni rispetto alla sentenza di assoluzione emessa al termine del processo “Imponimento” celebrato con rito ordinario, lo scorso 19 giugno in aula bunker a Lamezia Terme.
L’accusa per i due Stillitani era di concorso esterno, ovvero un presunto rapporto con la ‘ndrangheta locale e, in particolare, con gli Anello-Fruci in una sorta di “patto” di scambio di utilità reciproche. Secondo i giudici, però, perché la condotta possa essere qualificata in termini di concorso esterno, deve essere frutto di una libera scelta dell’imprenditore «che decide di scendere a patti con le cosche per un suo ritorno favorevole per la propria attività». Come sottolineato dal collegio giudicante, le fonti di prova sono costituite dal narrato dei collaboratori di giustizia Francesco Michienzi, Andrea Mantella, Giuseppe Comito, Gennaro Pulice, Antonio Accortoti, Onofrio Barbieri e dagli esiti intercettivi. I collaboratori, esaminati in dibattimento, hanno reso un lungo esame soffermandosi anche sulla posizione dei due Stillitani.
I giudici sottolineano le dichiarazioni, ad esempio, di Francesco Michienzi che, nel corso dell’esame dibattimentale, ha richiamato la figura dei fratelli Stillitani riferendo, in primo luogo, di una sorta di strategia posta in essere dai sodali contro i due imprenditori in occasione della costruzione del villaggio turistico “Garden Resort Calabria” a Curinga «per fargli capire che quella zona senza dì noi non era sicura». Il collaboratore aveva riferito di aver intrapreso insieme a Giuseppe Fruci e di concerto con Rocco Anello «azioni intimidatorie contro le aziende e le ville degli Stillitani» rubando mezzi agricoli, sfondando le porte d’ingresso e mettendo a soqquadro le toro abitazioni. I giudici hanno poi preso in considerazione le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Andrea Mantella. Quest’ultimo aveva dichiarato il 1° aprile 2022 di «aver sentito parlare dei fratelli Stillitani già prima della fusione con i Bonavota – Anello – Fruci allorquando faceva parte del clan Lo Bianco – Barba». «Più precisamente – ha riferito il collaboratore parlavano degli Stillitani, in particolar modo del fratello detto “u sindacu” già negli anni ’90, Carmelo Lo Bianco, Francesco Michele Patania alias “Ciccio Bello ”, Paolino Lo Bianco e Francesco Barba, i quali li conoscevano come amici, come imprenditori amici, insomma, ecco li sentivano vicini (…) che si mettevano a disposizione (…) vicinissimi ai Mancuso di Limbadi e in particolare alla “parte diplomatica” dei Mancuso, ossia di Luigi, Michele, Michelina Cosma Mancuso, e poi, praticamente erano in stretti contatti con Pantaleone Mancuso “Scarpuni”, nipote diretto di Luigi Mancuso».
I giudici, dunque, hanno sottolineato come la Pubblica Accusa, nel riferirsi al vantaggio conseguito dai due Stillitani «abbia fatto riferimento, oltre alla “protezione” e al controllo sui villaggi, a episodi specifici, di volta in volta tratteggiati nel corso dell’istruttoria dall’uno o dell’altro collaboratore, riconducibili in astratto ciascuno ad ipotesi penalmente rilevante. Proprio tale specificità implica la necessità di riscontro probatorio». E, in questo caso, per i giudici la prova è insufficiente. Secondo il collegio «per effettuare tale valutazione non può prescindersi dalla considerazione che è senz’altro pacifico che le cosche avessero pieno potere all’interno dei villaggi riconducibili agli Stillitani» ed è altrettanto chiaro che «l’ingresso dei sodali nei villaggi sia stato imposto dalla consorteria». «L’imposizione riguardava anche le scelte delle ditte e delle forniture. Le dichiarazioni dei collaboratori sul punto sono collimanti». Non altrettanto può dirsi in relazione all’evolversi del rapporto. Anzi, in realtà, «i collaboratori descrivono in modo ambivalente l’atteggiamento degli imputati, indicati talora come vittime, altre volte come collusi», notano i giudici che sottolineano ancora come «in sede di controesame, in più momenti, hanno riferito che gli Stillitani non potevano sottrarsi all’imposizione, non avevano libera scelta, rischiando, in caso contrario, oltre a danneggiamenti vari, la vita e tanto non solo nella fase iniziale ma anche successivamente».
Inoltre, il vantaggio correlato alla “protezione” richiamato dal pm per i giudici «non è frutto di libera scelta degli imputati che, qualora non soggiogati, non avrebbero cercato una soluzione di tale natura. Quanto, poi, ai rapporti tra gli Stillitani e la Valtur «il compendio probatorio complessivamente considerato non appare dotato di efficienza dimostrativa» e ancora «in quanto alla generale asserita volontà di mantenere il controllo sui villaggi da parte dei prevenuti che gli esiti intercettivi relativi ai procedimento “Olimpo’’ non depongono in modo univoco nel senso indicato dal pm». I giudici hanno poi “smontato” le tesi accusatorie legate ai presunti atti intimidatori nei confronti dell’economo, narrate da Francesco Michienzi, così come ai “fruttivendoli Montauro” in merito alla quale hanno fornito indicazioni i collaboratori Michienzi e Mantella: secondo i giudici «non si registra la vicendevole capacità di riscontro individualizzante».
Infine, la vicenda relativa al sostegno elettorale. Per i giudici, infatti, c’è la dimostrazione che Francescantonio Stillitani, in occasione delle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale svoltesi nell’anno 2005, si rivolgeva alle cosche per raccogliere voti e che le consorterie criminali assecondavano la richiesta, tanto però induce a ritenere al più configurabile il reato di voto di scambio politico-mafioso (416 ter), riportato nel decreto di rinvio a giudizio e non contestato perché prescritto, «ma non vale a connotare la condotta in termini di concorso esterno». Secondo il collegio giudicante, quindi, si possono ritenere riscontrati «il procacciamento di voti da parte delle associazioni criminali in questione; la corresponsione di un compenso e l’esistenza di un’intesa, finalizzata alla raccolta dei voti, tra gli stessi sodalizi e l’esponente politico Francescantonio Stillitani oltre alla consapevolezza che il procacciamento dei voti, avvenuto a mezzo di ‘ndranghetisti, ha implicato l’utilizzo di metodologia mafiosa». Per i giudici «non vi è invece prova sicura, oltre ogni ragionevole dubbio, che le cosche, già all’interno dei villaggi in cui avevano ormai preso piede e consolidato il loro potere, proprio all’esito di tale accordo e in conseguenza dello stesso, abbiano tratto benefìcio ulteriore». «L’assetto rimane e sarebbe rimasto lo stesso, anche in assenza del sostegno elettorale garantito a Francescantonio Stillitani». (g.curcio@corrierecal.it)
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