L’Argentina è un caleidoscopio di culture, idiomi, volti differenti e tradizioni. In Italia se ne torna a parlare dopo la cittadinanza tributata dalla presidente Meloni al presidente Javier Gerardo Milei, l’economista appassionato di motoseghe “entrato nella pancia degli argentini”.
Ma in Argentina, “il Paese più metafisico del mondo”, l’Italia è di casa da sempre. E tra gli italiana magna pars hanno i calabresi, confluiti a fiumi nei secoli scorsi. Quando gli immigrati eravamo noi.
Per capirla può aiutarci meglio, piuttosto che la sociologia, l’economia o la sua storia tra feroci dittature militari e governi populisti e democratici, la letteratura. Perciò, propongo una mia intervista di giugno 2002 (l’Argentina è in piena e tragica crisi economica e sociale) ad Ernesto Sabato (Rojas 24 giugno 1911 – Santos Lugares 30 aprile 2011): il grande scrittore argentino, “coscienza critica di un Paese in ginocchio”. Decimo di undici figli di due immigrati italiani originari della Calabria:
«Fu Camus a scoprirlo e il suo primo volume, Tunnel, riflette l’ansia di vivere in un mondo assurdo. Fu poi la volta del suo grande romanzo: Sopra eroi e tombe. Sabato è un romanziere dalle descrizioni forti, ma anche un intellettuale lucido e sempre dalla parte dei più deboli (fu chiamato a presiedere la Commissione nazionale sui desaparecidos nel 1985) che, ancora oggi, a 91 anni, insiste per un Patto tra gli oppressi. Lo incontro una sera di giugno nella sua vecchia casa di Santos Lugares, quartiere della ribollente Buenos Aires, dove ama dipingere. E riflettere: “Gli organismi internazionali sono schiavi di una logica diabolica. Eravamo un grande Paese ed oggi ci siamo ridotti così, che tristezza. Il superamento di questa crisi dipenderà dalla gravità con cui sapremo assumerla”. E poi: “Tutta la nostra vita sarebbe una serie di grida anonime in un deserto di astri indifferenti?” Sabato, per tanti, è questo interrogativo desolato, l’uomo che ha davanti a sé l’abisso del nulla e dei silenzi totali e che, se si affida al punto di domanda, è soltanto per non cedere al suicidio. Quest’interrogativo attraversa la sua opera e avvinse Albert Camus e l’esistenzialismo agli inizi del Novecento. Ma questo romanziere argentino di 91 anni, che è stato “ragazzino solitario e spaventato di un villaggio della Pampa”, avrebbe potuto essere un ragazzino spaventato di un villaggio della Calabria dei primi del ‘900, quasi a ricordare che in ciascuno di noi corrono sempre due destini, quello che si è e quello che si sarebbe potuto essere. Quando gli ricordo il destino che non ha avuto, si schermisce con un sorriso, ma non distrae la sua anima dai dolori del presente: “E’così”, annuisce. Sabato è l’acuto, scrupoloso notaio di anime sprofondate nell’oblio del terrore, dello sconforto e della paranoia. Il suo capolavoro è Sopra eroi e tombe che, insieme al Grande Sertão di Guimarães Rosa, secondo lo scrittore triestino Claudio Magris, è il più grande romanzo sudamericano e uno dei grandi libri del secolo.
Se pensiamo a Sabato e allo sradicamento subito dalla sua famiglia, violento come solo l’emigrazione sa essere, e alla carneficina dei militari nell’Argentina della “Guerra sporca”, comprendiamo come abbia potuto mettere in bocca al protagonista di Tunnel (il suo primo libro) Juan Pablo Castel, una frase così drammatica: “Che il mondo sia orribile è una verità che non necessita dimostrazioni”. Ma c’è sempre una luce dietro ogni sua rinuncia totale, un baluginìo timido ma resistente alle tenebre. E se la s’insegue, si scopre non la freddezza del razionalista, ma un ingegno vivido, caldo, una saggezza dalle radici antiche.
Così, si scopre che Ernesto Sabato è anche un inno alla speranza. Il suo sorriso dolce e la mano che tende per salutarmi, quando mi riceve nella casa dove ha vissuto per più di sessant’anni, sono disarmanti. Dopo viaggi nell’animo umano più inverecondo e ricolmo di feccia e l’immersione nelle crudeltà della storia del suo Paese, è sempre lui che trova la forza di affermare: “Soltanto chi sarà capace di incarnare l’utopia sarà pronto per la battaglia decisiva, quella destinata a recuperare l’umanità che abbiamo perduto”.
Lo scrittore vivente più autorevole dell’America meridionale che ha sangue calabrese che in Prima della fine scrive: “Mescolati alla moltitudine di colonizzatori, i miei genitori approdarono su queste spiagge con la speranza di fecondare la Terra promessa che si estendeva oltre le loro lacrime. Mio padre discendeva da italiani di montagna, abituati alle asperità della vita, invece mia madre, che apparteneva a un’antica famiglia albanese, dovette sopportare i disagi con dignità”.
Una sorta di testamento letterario destinato a coloro “che si avvicinano alla morte e si chiedono a che pro e perché abbiamo vissuto” e soprattutto utile per capire il secolo da poco archiviato e l’Argentina “insozzata dai governanti e dalla maggior parte dei politici”. Mi riceve nella sua abitazione di Santos Lugares, periferia ovest di Buenos Aires, e mi fa accomodare in uno studio tappezzato di libri: “Una volta a chi mi chiedeva quali letture fare, ho risposto: leggete ciò che vi appassiona, sarà l’unica cosa che vi potrà aiutare a sopportare l’esistenza”.
Sulla scrivania la foto di sua moglie Matilde e del figlio Jorge Federico, entrambi morti ma con i quali parla ogni giorno: “Spesso li guardo con la nostalgia di uno sguardo che mi spezza il cuore. Come vorrei tornare indietro nel tempo. Darei tutti i miei libri – e darei il mio prestigio, e gli onori e i riconoscimenti, pur di recuperare la loro vicinanza”.
Ha 91 anni, compiuti lunedì 24 giugno: “Quando ero giovane credevo che il limite massimo per la mia vita sarebbe stato 80 anni. Mi sono sbagliato. Si apprende di più dalla vita quando si è vicino alla morte”. Sabato ne ha viste tante nella sua Argentina disincantata, “distrutta”, insanguinata (“Negli anni che precedettero il colpo di Stato del 1976, accaddero atti di terrorismo che nessuna società civile avrebbe potuto sopportare. Invocando tali fatti, i golpisti, criminali della più bassa lega, rappresentanti di forze demoniache, scatenarono un terrorismo infinitamente peggiore, poiché si esercitò con la forza e l’impunità permessa dallo Stato assoluto, dando inizio a una caccia alle streghe che pagarono non solo i terroristi, ma migliaia e migliaia di persone”) e oggi, ancora una volta, in ginocchio.
Il Paese “più metafisico del mondo” appare quasi come una caramella succhiata, si stenta persino a intravedere un accenno di futuro. “Eravamo un grande Paese – ricorda più volte ogniqualvolta l’Argentina s’infila nelle parole. Con un mormorio quasi impercettibile, come un pensiero fisso che lo tormenta: “Eravamo un grande Paese. Io sono angosciato per la situazione che vive il mio Paese. Noi fummo una grande nazione intorno agli anni ’20, ma oggi il logoramento del mio Paese è tale che la parola nazione è come un vestito grande su un corpo esile. È sommamente grave arrivare a scoprire che si è tradito tutto ciò che significava il comune destino da realizzare; ed io le posso assicurare che questo Paese ha avuto tutte le occasioni per incarnare un importante destino. Però le abbiamo sciupate. Sistematicamente, abbiamo disatteso tutte le opportunità che la storia ci ha offerto e così siamo passati da granaio del mondo a un Paese dove ci sono bimbi che muoiono denutriti. È da anni che io lancio degli allarmi sulle conseguenze spaventose di questa politica di sfruttamento e disumanizzazione”.
Mentre mi mostra alcune edizioni italiane dei suoi tre romanzi importanti, soggiunge: “Eravamo un grande Paese e adesso ci siamo ridotti così. Che tristezza! Che tristezza!”. E i militari, maestro, i militari sono ancora uno spettro in questo Paese che ha conosciuto le loro degenerazioni? Mi fissa attraverso le sue spesse lenti, e di colpo ogni tremore del suo corpo vacillante scompare. Si capisce che non vuole rispondere, che ciò che sta accadendo oggi in Argentina lo scuote e lo prostra, ma poi il pensiero che non voleva articolare gli sfugge: “I militari, i militari io li tengo alla porta, non li faccio neanche entrare in casa mia…”.
Sabato le ha attraversate tutte le drammatiche pagine argentine. Non solo quelle dell’arrivo degli europei, ad incominciare dalla seconda metà del XIX secolo, che abbandonavano le loro poche cose in cerca di un pezzo di terra da arare e strappare “alla metafora del vuoto” che è la Pampa: “Quegli uomini, per la maggior parte, non trovarono che un altro tipo di miseria, fatta di solitudine e di nostalgia. Da questo irrimediabile sconforto nacque il canto più strano che sia mai esistito, il tango che una volta, Enrique Santos Discepolo, il suo creatore più illustre, definì un pensiero triste che si balla. Il tango è l’unico ballo popolare introspettivo”. E forse pensando ai suoi genitori, che arrivarono in Argentina a fine ‘800 da Fuscaldo (Francesco, il padre) e da San Martino di Finita (la madre Giovanna Maria Ferrari) in provincia di Cosenza: “Quanti italiani avrebbero continuato a vedere le loro montagne e i loro fiumi, separati dal dolore e dagli anni, nelle strade di Buenos Aires, in questa metropoli costruita sul porto e trasformata in un deserto di ammucchiate solitudini”. L’ultima delusione di questo scrittore che Guido Piovene, in un saggio del 1966, definì “descrittore forte e impressionante” e il cui primo romanzo, Tunnel, fu fatto conoscere all’Europa da Camus, è stata l’ingiustizia delle leggi che hanno impedito la punizione dei colpevoli di misfatti atroci commessi durante la “Guerra sporca”. È stato lui a presiedere la commissione sugli scomparsi dal 1973 al 1986 (più di 30 mila vittime della tirannide) dando al mondo Nuncamás, la relazione ufficiale redatta dalla commissione insediata da Raul Alfonsin nel 1985 che consentì la condanna dei membri della Giunta militare (Videla, Viola e l’ammiraglio Massera): “In più di cinquantamila pagine furono registrate le scomparse, le torture ed i sequestri di migliaia di persone, spesso giovani ed idealisti, il cui supplizio sarebbe rimasto per sempre nel punto più lacerato del nostro cuore”.
Oggi però sempre lui, con negli occhi le immagini delle Madres de la Plaza de Mayo che ogni giovedì pomeriggio sfilano davanti alla Casa Rosada (secondo alcuni non più in cerca delle persone scomparse ma della lista degli assassini), commenta con scoramento il non essere riusciti a punire i colpevoli, che, complici le leggi d’Obediencia debita e Punto final e poi gli indulti “hanno cancellato quella volontà sovrana che doveva essere un esempio di lotta etica, che avrebbe avuto conseguenze esemplari per il futuro del Paese”.
Gli ricordo la pagina dedicata al padre calabrese ed alla Calabria in uno dei suoi ultimi libri e avverto, dal suo mezzo sorriso, una commozione profonda in quest’uomo che ha attraversato il ‘900 in lungo ed in largo: comunista, anarchico, socialista, senza fedi, sempre contro l’oppressione, accanto agli ultimi (ancora oggi tenta di dare una mano ai ragazzi sbandati del suo quartiere e della sua città devastata dalla crisi).
Il suo ricongiungimento simbolico almeno per una seconda volta (ipotizzato nel nostro incontro) alla terra da cui s’imbarcarono i suoi genitori alla ricerca di un futuro, gli fa luccicare gli occhi. Parla di sé, in circa due ore di conversazione, ma soprattutto degli altri, questa coscienza critica di un Paese, l’Argentina, costretta ancora una volta a ricominciare da zero, sempre che voglia fare finalmente i conti con la storia, ma, anzitutto, con i propri errori. Spiega: “La situazione argentina è molto più grave di una semplice involuzione, giacché contiene tutto il dolore che discende dall’aver tradito l’utopia di quei grandi uomini che hanno fondato la nostra nazione. La situazione si è aggravata per la delusione e la sfiducia provocate nella gente dai discorsi demagogici della politica, dalla corruzione, dall’impunità per le mafie del potere e dall’inefficacia della classe politica. In questa situazione, sarà molto difficile tornare a mettere in alto le bandiere della speranza nel cuore del nostro popolo. Non si può continuare a chiedere sacrifici alla gente per ricostruire un territorio devastato da coloro che avrebbero dovuto governarlo”.
Ma si è giunti a questo punto perché l’Argentina, come diceva Guido Piovene, è il più metafisico del mondo? Un Paese quasi irreale che non fa i conti da decenni con la sua reale condizione economica? All’inizio della conversazione, avevo avuto la percezione che Sabato volesse eludere i temi politici, saltando le acuminate concretezze del presente. Errore.
Di punto in bianco, nei suoi occhi si accende la vis polemica contro un certo modo di essere scrittore e di essere nella storia afflitta dalla mortalità dell’uomo: “Se lei, citando Piovene, vuol dire che l’Argentina non è riuscita a portare avanti un progetto di Paese per una sua certa condizione metafisica, io non sono d’accordo. Il problema metafisico fondamentale, il classico mal metafisico che affligge l’uomo è l’inevitabile dramma della sua fine, il fatto tragico che l’uomo, costituzionalmente, è un essere per la morte. Anche se, paradossalmente, data questa curiosa dialettica dell’esistenza, gli eventi più portentosi della storia sono stati concretati da esseri umani imperfetti. Uomini e donne che hanno costruito le proprie opere come chi innalza un monumento in un porcile. Non si tratta di grandi fatti dovuti a dei Prometeo, ma a dei mortali effimeri e fragili, uomini di carne ed ossa, come Beethoven, Dante, Bolivar o Belgrano. E che maggior segno di maturità si può chiedere ad un uomo, oltre a quello di accettare questa dura condizione dell’esistenza, il che significa vivere ed operare in permanente tensione con la morte”.
E allora, maestro? “Le ho già detto che stiamo attraversando una gran crisi. Ma questo disastro al quale lei ben fa riferimento, non può essere attribuito al dramma metafisico. In fin dei conti gli argentini non sono gli unici esseri umani del pianeta, con la sgradevole abitudine di morire. Lo stesso dramma affligge il più umile e il più importante dei cittadini di qualunque nazione, senza che questo faccia tremare gli indici della borsa. Parliamo sul serio: quello che afferma Piovene è in gran parte indovinato, ma se lei mi chiede di questo disastro che stiamo vivendo, io le dico che la responsabilità non può essere ascritta alla metafisica; ma ad un sistema economico imposto come modello unico ed al quale si pretende di adattare tutto l’ambito della realtà. Ciò che sembra irreale, tremendo, spaventoso, è che per gli organismi internazionali che sostengono questo modello, la sacralità dell’umana creatura sia un ostacolo per i loro bilanci. Spesso penso che gli organismi internazionali siano schiavi di una logica demoniaca.”
Sabato è nato a Rojas, nei pressi di Buenos Aires nel 1911. Di lui si racconta di tutto, della sua conversione alla letteratura quando nel 1945 rinuncia alla scienza (si è laureato in fisica a La Plata), del suo impegno alla Presidenza della Comisiòn Nacional de la Desaparaciòn de Personas nel 1983. Da quando ha rinunciato alla carriera di scienziato per la riflessione letteraria, il suo mondo di relazioni è cambiato. Oggi è convinto che non solo l’Argentina stia soffrendo, ma il mondo intero corra dei rischi: “Dobbiamo aprirci al mondo. Non pensare che il disastro sia là fuori, ma che arde come un incendio proprio nelle nostre sale da pranzo”.
Nel suo volume di memorie, in cui scorre la sua esistenza, dall’infanzia all’impegno politico, dalle conoscenze importanti come Camus e Che Guevara, lancia un tutt’altro che pessimista “Patto tra i vinti” di tutti i continenti: “Anch’io ho voluto fuggire dal mondo, ma alla fine non l’ho fatto. Vi propongo, dunque, con la gravità delle ultime parole di una vita, di unirci in un compromesso: usciamo verso gli spazi aperti, rischiamo per gli altri, aspettiamo, assieme a chi tende le braccia, che una nuova onda della storia ci accompagni. Forse sta già succedendo, in un modo silenzioso e sotterraneo, come i germogli che palpitano sotto la terra in inverno. Qualcosa per cui valga la pena di soffrire e morire, una comunione tra uomini, quel patto tra vinti. Una sola torre, si, ma rifulgente e indistruttibile. In tempi oscuri ci aiutano coloro che hanno saputo orientarsi nella notte. Pensate sempre alla nobiltà di questi uomini che redimono il genere umano. Attraverso la loro morte ci consegnano il valore supremo della vita, mostrandoci che l’ostacolo non impedisce la storia, e ci ricordano quanto l’utopia sia necessaria all’uomo.”
Quando ci lasciamo, Sabato è stanco. Ho visto il lettino in cui dorme in una stanza angusta fatta di cose essenziali, un lume per la notte, dei libri, una macchina per scrivere su un tavolino accanto alla finestra. Non ci sono lussi nella sua casa in cui le crepe nell’intonaco corrono veloci senza che nessuno possa fermarle. Quasi che il suo ritorno in questa casa, in cui vissero sua moglie e suo figlio, non consenta aggiustamenti: “Voglio che la casa resti così com’è, con le sue crepe e le pareti mezzo scrostate…questa casa in cui nacque la mia opera e in cui morì Matilde”.
Stessa cosa per gli alberi del suo giardino, la vecchia araucaria, due pini centenari e un mastodontico gelso che nessuno pota più. Una casa destinata a non subire ritocchi, testimone di vite vissute. Sabato attende la fine, specchiandosi nei muri ruvidi di stanze che hanno sentito il respiro della vita che da qui è passata. E mentre l’attende dipinge, seduto su uno sgabello accanto ad una tela: “la pittura mi aiuta a liberarmi delle ultime tensioni notturne”. E sulla tela tratteggia le sue angosce surrealiste in chiave originale, come “l’universo tenebroso, illuminato solo da una tenue luce”.
In qualche posto, questo scrittore che non ha mai concepito l’arte come connessioni di parole e di stili astratti (“l’arte per me è un prezioso mezzo per scrutare la condizione dell’uomo e della sua anima, in questo mondo apocalittico, l’arte e la letteratura ci debbono aiutare a scoprire il significato della vita e della morte”), ha scritto che spesso nella sua vita si è sentito “come colui che aspetta un treno che mi riportasse indietro”.
Indietro dove? E fin dove? E cos’hanno a che vedere con la sua storia spesso finita al centro delle cronache mondiali per un impegno a difesa dei diritti umani, i richiami alle canzoni della terra di suo padre (“Ricordo che certe volte la sera mi teneva sulle ginocchia e mi cantava le canzoni della sua terra”), o il Mediterraneo “che gli offuscò lo sguardo”, quella volta che andò in Calabria a conoscere il luogo dove un giorno il padre s’innamorò di sua madre?
La cosa curiosa di questo scrittore che ha scritto soltanto quando sentiva dentro di sé il desiderio di aggiungere un mattone nella gigantesca pila del sapere umano, è che, pur indugiando spesso alla meditazione astratta, non si lascia mai distaccare dalla realtà di tutti i giorni, neanche oggi. Da dove deve può ricominciare l’Argentina? Sabato si ritrae per un istante, accarezza il suo vecchio cane che scodinzola e s’infila sotto il tavolo: “Siamo giunti a questo punto per via dei militari, delle politiche sociali ed economiche non pensate per l’interesse generale, ma imposte dal dispotismo dei grandi gruppi internazionali che ci controllano, complici i tanti funzionari pubblici corrotti che hanno saccheggiato il patrimonio del paese a beneficio personale. La soluzione dovrà venire dalle crepe che si stanno aprendo nel tessuto sociale e politico, da questo disastro può uscire un altro tipo di impegno. Come in ogni grande tragedia, questo è un tempo risolutivo e il superamento di questa crisi dipenderà dalla gravità con cui sapremo assumerla.”
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