LAMEZIA TERME La Chiesa della Pietà di Lamezia Terme è gremita, l’occasione è la presentazione del libro “Forte come il dolore. un caso di giustizia negata” di Doris Lo Moro. Il testo racconta la tragica perdita del padre Giuseppe Lo Moro e del fratello Giovanni, assassinati nel 1985 in un contesto di violenza mafiosa. Al termine dei processi avviati nessuno è stato condannato per il duplice delitto restituendo un caso emblematico di giustizia negata. Lo Moro – ai nostri microfoni – riflette sul dolore e sulla possibilità di trasformarlo in impegno civile. «Sono passati 40 anni dalla tragedia che ha sconvolto la mia famiglia. Sono stata vicina alle famiglie di vittime di femminicidio e di ‘ndrangheta, a chi ha subito intimidazioni. Sono sempre stata dalla parte dei più deboli, non è un caso. Ora era arrivato il momento di trasmettere un messaggio di comunanza». La scelta di presentare il libro nella Chiesa della Pietà non è casuale. «Qui sono stati celebrati i funerali di mio padre e mio fratello, il prete dell’epoca parlò di due persone che crocifisse come Gesù Cristo. E’ stato molto toccante. Questa Chiesa ha ospitato anche i funerali di mia madre, morta anche lei giovane. La presentazione, dunque, è dedicata ad una comunità che ci ha sempre amati».
«Appena scritto, appena finito, ho pensato che il libro non appartenesse solo a me. Ci sono persone la cui voce non arriva lontano perché la società non è pronta per ascoltarla. E invece è fondamentale capire quanto dolore ci sia», sostiene Lo Moro. Emozioni contrastanti nel racconto segnato evidentemente da una domanda che torna costante e (forse) non trova risposta: perché è successo? «C’è sempre questa ansia crescente che apparentemente è umana, ma che sostanzialmente allontana da sé la violenza. Chi si chiede cos’è successo, pensa – e l’ho fatto anche io tante volte quando ero ragazza – a me non può accadere, non ci sono motivi. La cosa triste è che queste cose accadono anche senza un motivo e le risposte che non arrivano sono quelle che attendi dalle istituzioni, dalla giustizia». Processi abortiti, sentenze tardive, verità sconosciute. «Altre volte, come nel nostro caso, si sono individuati dei responsabili e non si è arrivati a sentenze di condanna. Io ho vissuto questa violenza e l’ho vissuta anche da magistrato, da giudicante. So quanto ho sofferto. E’ stato difficile restare dalla parte della giustizia sapendo che i giudici sono fallibili, che possono sbagliare: il messaggio che vorrei trasmettere ai miei ex colleghi, a partire da mia figlia (una giovane collega), è di non scegliere la strada più facile perché un magistrato è tale ed è degno della toga soprattutto quando sa assumersi le responsabilità».
Lo Moro si sofferma sulla mala giustizia. «Si parla tanto della separazione delle carriere, estranea a questo libro, però è doverosa una riflessione. Se un pm percorre una strada e il giudice cammina lungo un altro percorso tutto diventa ancora più complesso», dice l’ex magistrato che ricorda i suoi anni da sindaca alla guida di Lamezia Terme. «Quando facevo politica, anche in questa città, si diceva che fossi rimasta un magistrato per sottolineare il mio rigore. In realtà, il rigore non è legato alla mia professione, quanto agli insegnamenti di un padre che ha trasmesso a me ed alla mia famiglia solo valori positivi. Pensare che un uomo così, a soli 62 anni, sia stato sottratto alla vita insieme ad un figlio di 19 anni mi fa inorridire e dovrebbe fare inorridire tutti». «Le famiglie che restano senza qualcuno e a cui viene sottratto qualcuno con la violenza – continua Lo Moro – sono monche ma bisogna trovare la forza di reagire». (redazione@corrierecal.it)
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