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Gli anni bui del terrorismo in Italia e le “altre” vittime nel racconto di Giuseppe Zanfini – VIDEO

Ospite del format in onda su L’altro Corriere Tv, il primo dirigente della Polizia rievoca gli Anni di Piombo nel suo libro “Mentre moriva”

Pubblicato il: 09/01/2025 – 16:04
Gli anni bui del terrorismo in Italia e le “altre” vittime nel racconto di Giuseppe Zanfini – VIDEO

LAMEZIA TERME Sono gli anni del terrorismo italiano, con organizzazioni eversive di destra e sinistra che mirano a destabilizzare lo Stato con omicidi e attentati. Un fotografo, su commissione del giornale per cui lavora, viene inviato a immortalare la scarcerazione di un brigatista. Saputo il nome, si rende conto che è proprio l’uomo che, anni prima, aveva ucciso il padre poliziotto. Inizia così l’intricata storia di “Mentre moriva”, il libro di Giuseppe Zanfini, primo dirigente della Polizia di Stato in servizio a Cosenza e con una lunga carriera nei commissariati calabresi. Ospite di Supplemento d’Indagine, il format in onda su L’altro Corriere Tv, canale 75, ogni mercoledì sera, Zanfini presenta la sua opera prima, ambientata durante gli Anni di Piombo italiani con protagonisti, in due parti, il figlio di una vittima del terrorismo e un membro delle Brigate Rosse. Tratteggia gli orrori del terrorismo politico, dal caso Moro alla strage di Bologna, offrendo spunti di riflessione su uno dei periodi più bui della storia repubblicana italiana.

I due protagonisti e la storia che si intreccia

«Il protagonista – racconta Zanfini – è il figlio di una vittima del terrorismo. Quelle che Mario Calabresi chiama “le altre vittime”, i parenti delle persone uccise». Una storia parallela a quella «del brigatista, che il giorno prima della sua scarcerazione si ritrova a rivivere tutta la sua vita». Due racconti che si intrecciano e si incontrano in quelli che sono stati «anni complicati per tutti: sindacalisti, magistrati, giornalisti. Sono gli Anni di Piombo, conseguenze delle lotte del ’68, poi sfociate e degenerate in queste forme di eversione». Periodo in cui vengono alla ribalta le Brigate Rosse, anche se «è forse  impossibile fissare una data in cui siano nate. Non avevano un’unica anima, c’era quella più eversiva e poi variate sfumature. Poi si sono trasformate e infine estinte».

Le “altre” vittime e il valore della memoria

Nel libro, edito da Eta Beta con la copertina realizzata da un altro poliziotto, l’ispettore Pino Savoia, uno spazio importante lo assume la memoria, che «aiuta a superare determinate situazioni. Solo ricordando le vittime noi possiamo riprenderci in qualche modo e avere una reazione. Io ricordo l’omicidio di Aldo Moro, ero un bambino e fu il mio primo incontro con la morte. Questa cosa mi ha turbato, poi sono cresciuto e ho iniziato a interessarmi e approfondire». La scintilla per la scrittura del libro nasce dalla lettura di “Spingendo la notte più in là” di Mario Calabresi, figlio di Luigi Calabresi, commissario di polizia vittima del terrorismo. «Nel libro parlava delle “altre” vittime, i parenti rimasti da soli dopo l’omicidio, vittime che erano state messe da parte per anni. Il mio personaggio tra le varie frasi ne dice una: “Esistono gli ex terroristi, ma non possono esistere le ex vittime. Una vittima, se è tale, rimarrà per tutta la vita”. Questo è uno dei punti sui quali ho focalizzato il racconto».

La “coscienza” del terrorista

Se la prima parte è dedicata alle vittime, nella seconda «più fredda e razionale» il protagonista è il terrorista. «Qui spiego le motivazioni che l’hanno spinto ad entrare nelle Brigate Rosse, come ha organizzato il primo attentato. Mi sono ispirato al “Piccolo manuale di guerriglia urbana” di Carlos Marighella, che è stato utilizzato da vari gruppi terroristici. Mi sono immedesimato nel terrorista e l’ho adattata alle nostre città e ai nostri tempi». Ma è qui che spunta un terzo protagonista, il compagno di cella del brigatista. «Lui gli dice che le loro vite sono state caratterizzate da continue perdite: della libertà, dell’individualità, della libertà di pensiero e a ogni critica. Che il loro ideale di libertà è diventata la prima prigione». Una metafora della coscienza che parla al terrorista, iniziando riflessioni sulla facilità nell’uccidere e sulle contraddizioni dei gruppi terroristici. Per loro «il fine giustifica i mezzi, anche per il caso Moro. C’erano pareri contrastanti all’interno, ma il fine era più importante dei mezzi».

La rieducazione della pena

Nel confronto tra il figlio della vittima e il brigatista, precisa Zanfini, però «non c’è odio. Nessuno chiede vendetta. Lui lo dice: lo Stato non si vendica, difende le sue leggi e condanna chi non le rispetta». La rieducazione della pena è un altro dei temi che emerge dal libro: «Si capisce che il sistema va riformato: il protagonista si rende conto che il brigatista, come tutti i delinquenti, dopo il tempo in carcere ha bisogno di supporto nel momento in cui esce. Anche il brigatista il giorno prima di uscire si chiede se il tempo passato lì è servito a qualcosa. Io non voglio arrivare a conclusioni, ma pongo degli interrogativi».

Il parallelismo con la ‘ndrangheta

Nel dialogare con Danilo Monteleone, non può mancare un parallelismo delle organizzazioni eversive con la ‘ndrangheta, che Zanfini ha affrontato nella sua lunga carriera da poliziotto in Calabria. «I vecchi mafiosi credevano in quello che facevano, avevano una loro ideologia come i terroristi. Credevano in concetti del disonore che loro credevano fosse onore, portavano avanti questi ideali e proprio perché pensavano che il fine giustifica i mezzi arrivavano a compiere azioni tragiche. Oggi la ‘ndrangheta è cambiata». Infine, Zanfini spiega il motivo del titolo: «”Mentre moriva” perché in quell’istante le due vite si uniscono. Il bambino stava a scuola, mentre il terrorista guardava il padre negli occhi. Una frase che fa da trade union tra le due storie». (redazione@corrierecal.it)

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