CATANZARO Gli elementi indiziari sussistenti a carico di Emanuele e Francescantonio Stillitani «non sono dotati di adeguata efficacia probatoria da fondare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’emissione di una pronuncia di condanna». Così i giudici del Tribunale di Lamezia Terme avevano motivato l’assoluzione piena nei confronti di Emanuele e Francescantonio Stillitani, imputati “eccellenti” nel processo Imponimento, e per i quali l’accusa aveva invece chiesto 21 anni di carcere. Si tratta del troncone ordinario del processo, nato dall’omonima inchiesta della Dda di Catanzaro, contro il clan di ‘ndrangheta Anello-Fruci. La sentenza dello scorso giugno aveva consentito alla difesa di incassare una prima vittoria con la completa assoluzione perché «il fatto non sussiste» e per «non aver commesso il fatto».
Tanti i punti contestati dalla Dda, secondo la quale il Tribunale di Lamezia Terme ha offerto una motivazione «quanto mai scarna e slegata dalle complessive risultanze processuali» ed evidentemente viziala da errori di fatto e di diritto che «hanno condizionato la decisione». Secondo l’accusa, «il principale e decisivo errore di diritto, che ha condizionalo una parte importante della sentenza impugnala, è costituito dalla mancata lettura complessiva di tutti gli elementi a disposizione del Tribunale, che andavano letti insieme e non separatamente».
L’accusa sottolinea, poi, un punto decisivo per quanto riguarda il presunto reato contestato di concorso esterno, prendendo in esame le dichiarazioni dei pentiti. Secondo i giudici – come illustrato nelle motivazioni – i collaboratori hanno descritto «in modo ambivalente l’atteggiamento degli imputati, indicati talora come vittime, altre volte come collusi», notano i giudici che sottolineano ancora come «in sede di controesame, in più momenti, hanno riferito che gli Stillitani non potevano sottrarsi all’imposizione, non avevano libera scelta, rischiando, in caso contrario, oltre a danneggiamenti vari, la vita e tanto non solo nella fase iniziale ma anche successivamente». Si tratta – in questo caso – di macroscopici errori di diritto «in cui è incorso il Tribunale di Lamezia Terme e che hanno condizionato l’intero percorso logico-argomentativo» che ha condotto alla loro assoluzione.
Secondo quanto motivato dall’accusa nell’appello, «il primo errore consiste nell’aver ritenuto che l’iniziale condizione di assoggettamento degli Stillitani da parte della ‘ndrangheta e, quindi, la compressione della loro volontà, dovesse scomparire del rutto nel corse dell’evoluzione dei rapporti tra gli imprenditori e le cosche Anello e Accorinti». Per i pm c’è, infatti, una «grave dimenticanza» da parte dei giudici: il presupposto stesso che il rapporto sinallagmatico «è rappresentato sempre e comunque dalla natura predatoria e coercitiva del sodalizio mafioso» che, anche quando si muove su logiche di transazione nella ricerca di convergenze strategiche con gli operatori economici, «lo fa spendendo il titolo illegittimo della propria forza di intimidazione», ricorrendo alla “forza contrattuale” che «gli deriva dalla possibilità di piegare o, comunque, di condizionare l’altrui volontà».
Per la Distrettuale antimafia, quindi, «non esiste un imprenditore che liberamente sceglie di scendere a patti con la mafia, anche quando tale scelta non prenda le mosse da un pregresso rapporto di assoggettamento e dalla sua evoluzione» perché «la ricerca del patto scellerato con la criminalità presuppone sempre il confronto con la capacità coercitiva dell’organizzazione».
Secondo la Dda, inoltre, gli Stillitani come concorrenti esterni, nella qualità di imprenditori del settore turistico- alberghiero, Francescantonio Stillitani, anche in veste di uomo politico di riferimento del sodalizio, «avrebbero fornito uno stabile contributo alla vita dell’associazione». Dopo una prima fase in cui avevano subito richieste estorsive e a seguito di una tipica evoluzione del rapporto in termini collusivi, «instauravano uno stabile rapporto “sinallagmatico”, caratterizzato dalla perdurante e reciproca disponibilità a prestarsi ausilio».
In buona sostanza, per l’accusa, «ciò che rende l’imprenditore colluso con la mafia è non già il fatto di avere eventualmente trovato un aggiustamento con i mafiosi al solo fine di limitare il danno derivante dalle pretese estensive, ma è il fatto di avere stipulato un vero e proprio patto di collaborazione con i membri del sodalizio con cui egli è entralo in contatto». (g.curcio@corrierecal.it)
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