Il sole aveva scherzato col fuoco, nella notte del 26 settembre 1983. Il mondo sarebbe finito, se Stanislav Petrov non avesse evitato la risposta dell’Urss agli Usa. Nella base Serpukhov-15, a 125 chilometri a sud di Mosca, erano pervenuti segnali di un attacco missilistico statunitense. Senza avvertire i propri superiori, quel tenente colonnello di Vladivostok pensò a un errore del sistema di monitoraggio e sul posto statuì che non c’era motivo di reagire. Soltanto dopo si sarebbe scoperto che i riflessi solari dell’autunno incipiente avevano ingannato i satelliti della difesa sovietica, falsandone le immagini. Petrov, che aveva colto la realtà, salvò il genere umano: la Russia non lanciò missili nucleari contro gli Usa. Forse quell’uomo venne in parte attraversato dalla paura di una catastrofe definitiva e irreparabile. Comunque, scongiurò il contrattacco, previsto dalla dottrina della «distruzione reciproca assicurata», conosciuta come «Mad».
L’episodio è menzionato da Noam Chomsky nel suo libro “Chi sono i padroni del mondo”, del 2014. Nel volume, l’autore affrontò questioni primarie ad oggi irrisolte: dallo spettro del terrorismo alle note polveriere del Medioriente; dallo scontro fra l’Occidente e la Russia alla crescita della potenza cinese. Allora il filosofo contestò la dominanza statunitense nelle armi, nell’economia e nella politica, a suo avviso sorretta da una narrazione a senso unico: dogmatica, funzionale, esclusiva.
Pubblicato dal 1983 al 1988, il manga “Ken il guerriero”, anche ripreso in due serie televisive, rappresentò un contesto di regresso della civiltà e di devastazione dell’ambiente. «Siamo alla fine del XX secolo, il mondo intero – recitava l’introduzione del cartone animato – è sconvolto dalle esplosioni atomiche. Sulla faccia della Terra gli oceani erano scomparsi e le pianure avevano l’aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la razza umana era sopravvissuta». Fu un tentativo (giapponese) di focalizzare il quadro geopolitico all’epoca della Guerra fredda, di fissarlo nell’immaginario collettivo, di diffonderne i pericoli, di ribadire tre valori dell’umanità – salute, giustizia e pace – attraverso la lotta e l’esempio di vari personaggi, maestri di arti marziali; a partire dal protagonista Ken.
Nell’89 cadde il Muro di Berlino e nel ’92, con il Trattato di Maastricht, iniziò il percorso formativo dell’Unione europea, allora basato – in sintesi – sul mercato comune e sull’unione economica e monetaria; sulla politica estera e sulla sicurezza interna; su uno «Spazio di libertà, sicurezza e giustizia», con la collaborazione degli Stati per contrastare la criminalità sovranazionale. Seguirono integrazioni e aggiustamenti con i Trattati di Amsterdam (1997), Nizza (2001) e Lisbona (2007). Tuttavia, l’Unione europea non ha mai raggiunto l’unificazione politica. Inoltre, la sua architettura istituzionale rimane un ibrido di notevole complessità, rivelatasi inadeguata a rispondere ai bisogni del presente, ad affrontare le sfide del XXI secolo.
Con la pandemia da Covid-19 e poi con la guerra fra Russia e Ucraina, l’Ue avrebbe dovuto compiere tre passi decisivi: modificare la propria struttura istituzionale, riformare in maniera radicale il Patto di bilancio europeo, creare un debito comune. Invece no, hanno prevalso interessi particolari e il pensiero di natura, modalità e tempi delle forniture militari all’Ucraina. La Germania non ha compreso i tempi e ha subito la crisi dell’automotive con effetto a catena, mentre la Francia si è chiusa in se stessa, seguendo un remoto istinto colonialistico. L’Italia ha invece rincorso gli altri Paesi fondatori: di fatto non ha espresso una linea propria, nonostante, peraltro, la recente presidenza del G7. Soprattutto, anche per via dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, preparata dal 2016 ed effettiva il 31 gennaio 2020, è mancata in generale una visione matura e concreta sul ruolo autonomo dell’Unione europea, che non ha saputo discutere del proprio futuro in un mondo segnato dalle diseguaglianze, dalle migrazioni, dalle tensioni internazionali, dai colpi e venti di guerra, dalla marcata divergenza fra gli orizzonti dei Paesi della Nato e quelli del raggruppamento Brics.
Eppure, già nel 1795, nell’opera “Per la pace perpetua”, Immanuel Kant aveva tracciato in sei articoli una direzione da non sottovalutare. In particolare, il filosofo di Königsberg, l’odierna Kaliningrad, aveva avvertito che: «nessuna conclusione di pace» può rivelarsi efficace, se frutto di una «riserva segreta» di guerra futura; nessuno Stato indipendente «deve poter essere acquistato da un altro per eredità, permuta, compravendita o donazione»; «gli eserciti permanenti devono col tempo del tutto cessare»; non bisogna procedere a indebitamento pubblico per «conflitti esterni dello Stato»; «nessuno Stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato»; «nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi ostilità tali da rendere impossibile la fiducia reciproca nella pace futura» – per esempio l’impiego di sicari oppure l’istigazione al tradimento.
Sembrano dell’altro ieri le suddette tesi, che i governi degli Stati europei avrebbero potuto considerare, in modo da costruire un’Europa in grado di essere ponte e cerniera fra l’America e l’Asia, sulla scorta di quella spinta kantiana – razionale – alla pace, presupposto di una stabilità politica diffusa quantomai necessaria, da perseguire senza doppiezze, artifici, forzature. Usa e Uk si appresterebbero a nuovi patti, oltre le formali anticipazioni del premier britannico Keir Starmer su commercio, investimenti e sicurezza. L’Ue deve invece fare i conti con gli effetti nefasti del conflitto russo-ucraino, dall’aumento dei prezzi dell’energia alla crisi del settore industriale. E, mutuando i rilievi dell’economista Pasquale Tridico al recente rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività europea, dovrebbe concentrarsi su «un’analisi del lavoro di oggi, della funzione dei sindacati, dei problemi della povertà e disuguaglianza scaturiti dal capitalismo finanziario, e della grande disparità tributaria che garantisce alle multinazionali vantaggi fiscali ed elusione»; tema, questo dell’equità dei tributi, dibattuto nei giorni scorsi, tra gli altri, dallo stesso Tridico, dal Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz e dal presidente brasiliano Lula alla Pontificia accademia delle scienze sociali.
In un lungo (equivocato) articolo del 19 febbraio 2023, il filosofo Jürgen Habermas esaminò i rapporti tra Occidente e Ucraina e alcuni aspetti di una loro possibile trattativa con la Russia, nel discettare della fornitura occidentale di armi a Kiev. «Un risultato negoziale durevole – scrisse Habermas – non può essere integrato nell’ambito di accordi di ampia portata in assenza degli Stati Uniti». Fu un presagio: alla vigilia dei due anni dallo scritto, cioè martedì 18 febbraio 2025, i capi della diplomazia statunitense e russa, Marco Rubio e Sergej Lavrov, in un memorabile incontro a Riyad hanno inteso «gettare le basi per una futura cooperazione su questioni geopolitiche di interesse comune e sulle storiche opportunità economiche e di investimento che emergeranno da una risoluzione positiva del conflitto in Ucraina». E a tale riguardo hanno deciso di nominare squadre di “alto livello” per un risultato «che sia duraturo, sostenibile e accettabile per tutte le parti». È stato un confronto con una prospettiva di lungo periodo, il segno di un probabile cambiamento dello scenario politico su scala globale. Del resto, nel commentare la telefonata con Donald Trump del mese scorso, voluta proprio dalla Casa Bianca, Xi Jinping aveva detto del suo omologo statunitense: «Entrambi siamo disposti a promuovere un maggiore progresso nelle relazioni Cina-Usa, partendo da un nuovo punto di inizio». Per la cronaca, il vicepresidente cinese Han Zheng aveva poi partecipato alla cerimonia di insediamento del neoeletto presidente Usa.
A proposito del vertice di Riyad, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha affermato di volere una fine del conflitto con la Russia, ma con garanzie sulla sicurezza da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e della Turchia. Zelensky ha aggiunto: «Non riconosceremo mai, in nessuna circostanza, i nostri territori temporaneamente occupati come parte della Russia: sono parte dell’Ucraina».
I campi di osservazione appaiono diversi. Trump e Putin sanno che governare la trattativa in parola è conveniente per gli Usa e la Russia. I leader europei si sono ritrovati a Parigi, dove Ursula von der Leyen ha ripetuto la necessità di aumentare le spese militari, con l’avallo dell’intero consesso, compresa Giorgia Meloni. Dal canto suo, Zelensky ha messo le mani avanti: ha visualizzato la dura realtà del presente e la prospettiva complicata del futuro. Trump ha avviato la politica dei dazi in funzione anti-Cina – o, più correttamente, per ragioni di mercato –, e di Pechino conosce bene il peso economico e politico. Putin, che ha un asse consolidato con Xi Jinping, ha moltiplicato i guadagni sul gas, mentre l’Europa è al bivio, sul piano geopolitico e su quello economico. Intanto, il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, ha accusato: «I leader europei che sostengono la guerra e sono contrari a Trump si riuniscono oggi a Parigi per bloccare gli sforzi di pace in Ucraina». E ha scandito che, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, «l’era della politica interventista è finita», per concludere: «A differenza di coloro che si riuniscono a Parigi, che hanno alimentato l’escalation per tre anni, noi sosteniamo gli sforzi di pace».
Zelensky è rimasto in pratica fuori dai giochi, con il problema della ricostruzione dell’Ucraina – che prima o poi dovrà tornare al voto – e con l’iniziativa in mano a Trump e Putin (con Xi), il quale vuole «l’Ue fuori dai negoziati». Le ultime dichiarazioni di Trump confermano che il leader ucraino è marginalizzato. «Ha convinto gli Stati Uniti – l’ha incalzato il tycoon americano – a spendere 350 miliardi di dollari per entrare in una guerra che non poteva essere vinta, che non era necessario iniziare, ma una guerra che lui, senza gli Stati Uniti e senza Trump, non sarà mai in grado di risolvere». E poi: «Zelensky ammette che metà del denaro che gli abbiamo inviato è “sparito”. Si rifiuta di tenere le elezioni, è molto basso nei sondaggi ucraini, e l’unica cosa in cui era bravo era suonare Biden “come un violino”». E ancora: «Zelensky probabilmente vuole continuare a mantenere il “treno del denaro” in movimento. Amo l’Ucraina, ma Zelensky ha fatto un pessimo lavoro, il suo Paese è distrutto e milioni di persone sono morte inutilmente».
Trump ne ha avuto pure per l’Europa, la quale, ha detto, «ha fallito nel portare la pace». «Gli Stati Uniti – ha peraltro sottolineato – hanno speso 200 miliardi di dollari in più rispetto all’Europa, e i soldi dell’Europa sono garantiti, mentre gli Stati Uniti non riceveranno nulla in cambio». Non sembrano affatto dichiarazioni istintive, influenzate, secondo Zelensky, «dalla propaganda russa». Anzi, esse rivelano precise intenzioni, che fanno il paio con la ricostruzione di Andrei Soldatov, il maggiore esperto di sicurezza e Servizi segreti russi; il quale, con la giornalista Irina Borogan, ha scritto: «Il messaggio che arriva da Washington è ora in linea con la visione del mondo del Cremlino». Dove andrà la Nato, stante la prospettiva che Trump e Putin (con Xi) hanno intravisto?
Intanto, l’Unione europea imbocca la strada del riarmo auspicato dalle élite. Che si materializzerà, a quanto pare, con lo sforamento del Patto di stabilità mediante scorporo autorizzato delle spese militari, ma con un’evidente spaccatura sulla gestione delle truppe e, soprattutto, senza un’idea, un progetto di riorganizzazione istituzionale, politica, economica e sociale. Si tratta di un esito scontato e già previsto, rispetto al quale la dialettica, tutta italiana, tra patriottismo e antifascismo sembra sclerotica, addirittura pretestuosa. Certamente inutile.
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