RENDE Il faro sui lavori messi a bando dal comune di Rende e gli affidamenti sospetti hanno convinto la commissione d’accesso a rimpolpare il lungo elenco di motivi contenuti e riportati nella relazione inviata al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, con la quale è stato chiesto lo scioglimento dell’Ente. Il Tar del Lazio, ieri, ha respinto due ricorsi proposti dall’ex sindaco e dagli ex amministratori del Comune di Rende per contestare il decreto di scioglimento dell’amministrazione comunale, e tutti gli atti precedenti e successivi.
Per i giudici del Tar, «molti lavori venivano affidati a imprese in vario modo riconducibili ad un soggetto destinatario di una interdittiva antimafia datata 1 marzo 2023. Inoltre, lo stesso è risultato socio in affare dell’ex sindaco detenendo entrambi quote di una società, almeno fino alle elezioni del 2014 allorquando la compagine societaria ha visto la sostituzione dell’esponente con il relativo figlio». Questo soggetto «più volte imputato di vari gravi reati» è stato poi prosciolto dalle accuse. La commissione d’accesso però ritiene di aver raccolto elementi a sufficienza in grado di cristallizzare «l’esistenza di rapporti di vario genere (non necessariamente penalmente rilevanti) tra l’imprenditore e soggetti legati alla criminalità organizzata». In questo contesto, per i giudici, sarebbero maturati il sostegno nei confronti dell’ex sindaco di Rende e «la proposta da parte del primo di acquistare pacchetti di voto: sebbene poi non vi siano stati elementi ulteriore a riscontro della messa in opera di un simile proposito, si tratta di circostanza sufficiente, in questa sede, per dimostrare un interessamento da parte di un imprenditore contiguo alla criminalità organizzata per influire sull’amministrazione comunale».
L’ex assessore del comune di Rende e l’ex sindaco «hanno esercitato notevoli pressioni sul dirigente incaricato in merito alla necessità ed urgenza di liquidare i lavori eseguiti sul fiume Surdo (nel periodo immediatamente anteriore alle elezioni comunali del 2019), nonostante questi avessero cagionato un danno economico all’amministrazione». Il Tar si sofferma anche su un altro degli episodi ritenuti cardine nella costruzione della relazione che poi ha portato allo scioglimento dell’Ente. «I toni delle conversazioni fanno emergere la spinta e le pressioni (nonché le minacce, più o meno velate) degli organi politici su quelli amministrativi al fine di elargire il denaro pubblico all’imprenditore privato». Sul punto, le difese, hanno sottolineato nel ricorso come il Tribunale del Riesame di Catanzaro abbia escluso la gravità indiziaria in merito ad una presunta corruzione e come successivamente le accuse mosse nel processo siano tutte più o meno cadute. Per il Tar, però, «deve ribadirsi che l’eventuale illegittimo operato non deve necessariamente tradursi in un illecito penale, essendo sufficiente che esso abbia favorito – anche solo in maniera indiretta – le organizzazioni criminali presenti sul territorio».
«Carenza di direttive ed atti d’indirizzo finalizzati all’efficiente impiego degli immobili comunali», vengono sottolineate dal Tribunale amministrativo regionale. I locali di piazza Matteotti, «venivano (indirettamente) alienati dal comune alla società conduttrice (che aveva accumulato un rilevante debito superiore a 100mila euro per omesso versamento dei canoni di locazione).
In relazione al servizio di installazione e gestione di impianti pubblicitari la parte ricorrente «si limita ad evidenziare come il dirigente dell’ufficio comunale abbia inviato delle richieste di chiarimenti scritti al concessionario e poi, stante l’assenza di risposte, domandato alla Prefettura l’esistenza di interdittive antimafia». Per il Tar, «l’amministrazione non ha intrapreso alcuna seria iniziativa per ostacolare l’abuso commesso dalla concessionaria che subappaltava gli spazi concessi in spregio della convenzione con l’ente locale (rilevanti appaiono anche le dichiarazioni del comandante della polizia locale che rappresentava l’inerzia degli uffici comunali)». Ancora, si legge nella sentenza del Tar del Lazio, «l’amministratore della società concessionaria è risultato anche avere dei rapporti con soggetti pregiudicati, circostanza che, ancora una volta, dimostra il pericolo di infiltrazione mafiosa».
Circa un terzo dei dipendenti di una società in house del comune di Rende è risultato gravato da precedenti di polizia. Sebbene la stessa fosse finalizzata anche all’inserimento lavorativo di soggetti pregiudicati, «nessun tipo di limitazione dell’impiego di tali soggetti veniva sollecitato dall’amministrazione».
Infine, in merito alla riscossione dei tributi locali, la proposta ministeriale evidenzia come diciannove tra amministratori ed ex amministratori del comune di Rende hanno pendenze (anche per importi rilevanti) nei confronti dell’ente. La situazione di generale «lassismo» avrebbe «determinato una massa residua di oltre quarantadue milioni di euro, circostanza che dimostra in maniera inequivocabile come l’amministrazione disciolta abbia rifiutato una gestione efficiente dei propri tributi, con ricadute negative sulla collettività». (f.benincasa@corrierecal.it)
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