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L’eredità del Muro di Berlino: libertà o dominio del Capitalismo?

Varrebbe chiedersi, per riprendere un tema caro a Gianni Vattimo, affascinato dalla filosofia della storia, «verso che mondo andiamo»?

Pubblicato il: 28/02/2025 – 6:45
di Emiliano Morrone
L’eredità del Muro di Berlino: libertà o dominio del Capitalismo?

Cielo terso ma di un azzurro smorto. In lontananza si scorgevano sfumature violacee, sprazzi di nubi sul nerastro. La guardia dei militari sembrava una benedizione delle folle in attesa, pronte a varcare quella barriera di cemento e filo spinato, brutta e lugubre a perdita d’occhio. Lì la temperatura oscillava tra i dieci e i due gradi Celsius; la svolta camminava nel silenzio di minuti inafferrabili. All’improvviso, il 9 novembre dell’89, il Muro di Berlino si aperse; più tardi fu abbattuto a pezzi.
Lo ricordo, ero ragazzino: la tv ci aveva preparato a lungo e con gli amici di piazza Aldo Moro, davanti alla Posta del mio paese, commentavo emozionato quel capitolo di storia fuori dai libri, trasmessa ogni giorno come il meteo e le soap. Eravamo felici d’aver visto, seppure a distanza, un evento destinato a cambiare l’Europa e l’intero pianeta e che, ripetevamo, sarebbe prima o poi finito nei testi scolastici. Nel 1990 Fabrizio De André uscì con l’album “Le nuvole”, che conteneva “La domenica delle salme”, canzone dedicata al crollo del (Muro del) comunismo, per cui «non si udirono fucilate», giacché «il gas esilarante presidiava le strade». «La domenica delle salme – avvertì Faber – si portò via tutti i pensieri e le regine del “tua culpa” affollarono i parrucchieri». Insomma: fine di un’epoca, di un regime impediente, e via con le chiacchiere distensive, l’indolenza, l’evasione di fronte alla prospettiva della crescita e dello sviluppo indicata dal nuovo liberismo. In termini polemici, il cantautore genovese aggiunse che durante le esequie del comunismo «nessuno si fece male»: tutti «a seguire il feretro del defunto ideale», mentre «si sentiva cantare “quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare”». Nei suoi versi, carichi di metafore e visione politica, De André previde il futuro con lucidità spiazzante, al punto che bisognerebbe domandarsi se quel Muro era un confine della libertà oppure un argine contro l’esondazione del fiume del capitalismo, alimentato dal potere e dalla guerra. Che cosa è cambiato a quasi 36 anni dalla caduta del Muro di Berlino, che dal 13 agosto del ’61 aveva diviso i tedeschi e simboleggiato la «cortina di ferro», il confine fra gli Stati dell’Europa sotto l’ombrello della Nato e quelli del Patto di Varsavia?
Lunedì scorso, sul giornale “Il Fatto Quotidiano”, l’economista Giovanni Dosi ha provato a rispondere alla domanda. Dopo la Seconda guerra mondiale, questo il succo del suo discorso, in Occidente avemmo tre decadi di benessere. Anche in Italia, sia pure in misura ridotta e nonostante le stragi del terrore.
Nel Belpaese si materializzarono, infatti, conquiste sociali e civili di grande rilievo: Servizio «Sanitario Nazionale, Riforma Fiscale Visentini (molto progressiva), Statuto dei Lavoratori, divorzio, aborto» eccetera. «Cade l’Unione Sovietica e con essa scompare – ha riassunto Dosi – quella minaccia silenziosa che aveva provvisoriamente domato le tendenze più acquisitive dei capitalisti». Secondo l’accademico, «la veloce demolizione del vecchio aveva però anche bisogno di un’ideologia che legittimasse un “nuovo”». Allora «entra in scena il neoliberismo» ed emergono politologi alla Francis Fukuyama che elaborano teorie ad hoc, per esempio «il liberalismo come la fine della storia», le quali «diventano velocemente una “filosofia del mondo”, che copre ogni aspetto della vita sociale e prescrive l’espansione del mercato anche nel dominio di quelli che erano diritti, precarizzando ogni rapporto sociale». In particolare, Fukuyama ritiene che il liberalismo democratico abbia determinato l’ultima e migliore forma di Stato possibile; che la storia proceda verso il progresso –specie tecnologico e industriale, diremmo – sotto la guida del capitalismo economico.
È un’idea che ha pervaso – e orienta – pure il ceto medio-basso, nonostante il progressivo allargamento del proletariato indotto dal capitalismo finanziario, digitale e virtuale. Il pensiero di Fukuyama seduce perché i consumi di massa sono la droga del XXI secolo: dallo smartphone al robot lavapavimenti, dalle borse griffate all’abbonamento televisivo per distrarre gli infanti. In breve: la ricchezza è in mano a pochissimi, la redistribuzione degli utili si riduce, la manodopera è sempre più affidata alle macchine e il lavoro creativo è rimesso all’Intelligenza artificiale con frequenza crescente. Intanto i salari diminuiscono insieme alle garanzie contrattuali. Parimenti, la tassazione premia i giganti del web e opprime i comuni mortali, cioè un proletariato che si espande per causa dell’inflazione galoppante, dell’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, dal pane al gas, e della propensione – paradossale – all’acquisto spasmodico di prodotti superflui, hi-tech e del lusso modale.
Come cantava Claudio Baglioni, «tu nascosta in fondo a un’amarezza, a far finta che il mondo sia un bel posto, e adesso la pubblicità»; pubblicità, peraltro, ora sganciata dai valori – del Novecento – di casa, scuola e parrocchia.
Allora conta soltanto la compravendita, per dirla in termini civilistici, oppure, usando il linguaggio economico, la legge della domanda e dell’offerta. Non c’è altro: né la realizzazione né la tutela né la centralità della persona, con la sostanziale inversione dell’imperativo kantiano «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo», tal che l’umanità è oggi puro mezzo del profitto. Questo è l’approdo del pensiero di Fukuyama per come applicato nelle sedi del potere reale, anche considerato che il capitalismo ha messo piede da parecchio nelle stanze istituzionali di comando, molto prima dell’ingresso a palazzo di Elon Musk. Nel suo articolo, Dosi ha inoltre richiamato una massima di Ronald Reagan: «lo Stato non è la soluzione ma il problema». Se combiniamo l’assunto reaganiano con il dogma del liberalismo contemporaneo nella versione di Fukuyama, si arriva a legittimare la privatizzazione dei servizi e delle società statali, perché, ed è questo l’assioma, il mercato e il privato funzionano meglio e assicurano risposte – ovviamente, ammesso e non concesso che sia una verità assoluta, a chi può permettersi di pagare. Il che vale anche nell’ambito del lavoro: è il mercato che, come per incanto, compensa con esattezza la capacità e l’intraprendenza del singolo nella catena universale della compravendita.
Viviamo proprio in questa dimensione e non abbiamo strumenti e poteri per modificarla, se subiamo lo schiacciamento verso il basso impresso dalle oligarchie capitalistiche. Varrebbe chiedersi, per riprendere un tema caro a Gianni Vattimo, affascinato dalla filosofia della storia, «verso che mondo andiamo»?
Nell’immagine del “Drago dalle sette teste”, ciascuna corrispondente a un persecutore, Gioacchino da Fiore (1135 circa-1202) profetizza l’avvento di un Anticristo dopo l’azione dell’arrogante e violento re Saladino. Allora sulla Terra, proprio sulla Terra, secondo l’abate calabrese, avremo giustizia e abbondanza di pace: l’Età dello Spirito trionferà e proseguirà sino alla fine dei tempi, quando il secondo e successivo Anticristo verrà punito, Satana sarà precipitato in uno stagno di fuoco ardente di zolfo, Cristo si manifesterà nella gloria della sua maestà e poi, con la Resurrezione dei morti e il Giudizio universale, si concluderà la storia e si apriranno le porte della Gerusalemme eterna. Di là dalla sua impronta religiosa, Gioacchino concepisce la progressione della storia umana secondo una spiritualizzazione che segue l’incedere del tempo, sino al dominio dell’Intelligenza spirituale. La dottrina gioachimita è caratterizzata dalla successione di conflitti e da segni che ogni volta anticipano il futuro, se focalizziamo la figura dei «Tre cerchi trinitari» intersecati: la più celebre, ripresa da Dante Alighieri nel XXXIII Canto del Paradiso, nei versi «Ne la profonda e chiara sussistenza/ de l’alto lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri/ parea reflesso, e ’l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri». Quanto sono attuali le due riferite immagini e, più in generale, quanto entra nel presente il pensiero dell’abate Gioacchino, secondo lo stesso Dante, «di spirito profetico dotato»? Può darsi che il re Saladino sia stato il comunismo e che il liberalismo democratico sia il primo Anticristo immaginato da Gioacchino? E, se così fosse, dove si scorgono, oggi, i segni dell’Intelligenza spirituale preconizzata dall’abate calabrese? Dove sono, se ci sono, gli intellettuali spirituali che, passato il funerale del comunismo e il «cadavere di utopia» nella «domenica delle salme», si oppongono senza remore, anche insieme al “laico” Dosi, alle persecuzioni del mercato, alle guerre, alle disparità, al massacro dei diritti e degli uomini? (redazione@corrierecal.it)

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