È la sera del 19 marzo del 1976 a Motticella, una piccola frazione di Bruzzano Zeffirio, nel reggino. Caterina Liberti, come ogni sera, sta tornando a casa insieme alla madre Maria Antonia Tedesco dopo una dura giornata di lavoro nei campi. Sono appena trascorse le 19, è già buio pesto, quando si sente una voce chiamare Caterina. La donna si volta di scatto ma proprio in quell’istante partono due colpi di fucile che la feriscono al torace e al braccio. Caterina cade a terra in una pozza di sangue, la madre urla disperata, chiede aiuto ad alcuni vicini che arrivano e trasportano in auto le due donne all’ospedale civile di Melito Porto Salvo. Le condizioni di Caterina appaiono subito disperate: la operano, le amputano un braccio, ma dopo appena due giorni, all’alba del 21 marzo, muore.
Caterina Liberti in quel tragico marzo aveva 36 anni e fino ad allora aveva dedicato la sua vita alla figlia 14enne, che aveva avuto con dopo una relazione con un uomo del posto. L’aveva cresciuto da sola, senza un padre. Senza essere sposata. Una macchia scura, difficile da scalfire in un paese piccolo, pieno di pregiudizi, un paese pettegolo e maligno di una Calabria antica. Ma lei, Caterina, non si era scoraggiata, non si era data per vinta. Non aveva mai badato alle malelingue, voleva solo che la figlia avesse una vita migliore rispetto alla sua e rispetto a quello stesso luogo in cui oltre al lavoro nei campi, era impossibile andare. Un luogo quasi del tutto invisibile, dal profumo di terra e, soprattutto dopo la morte di Caterina, di sangue per una cruenta faida di ‘ndrangheta tra le cosche dei Mollica-Morabito-Palamara-Scriva (Morabito detti Iarè e Palamara detti “i bruciati”) e gli Speranza-Palamara-Morabito (in questo caso i Morabito e i Palamara detti “i ramati”). Una faida da 50 morti, nata dopo quel 1976.
La morte di quella giovane donna di appena 36 anni viene decisa per ripulire uno sgarro, per ricordare a tutti che la “legge dell’omertà” non dev’essere infranta e chi osa farlo farà la fine di Caterina.
Tutto era nato da un furto. Il 2 febbraio a Caterina erano state rubate quattro capre rinchiuse in una sua proprietà. Una perdita enorme per una donna umile, onesta, che da sola e con non pochi sacrifici manteneva da sempre la madre e la figlia che frequentava la terza media. Sapeva benissimo chi le aveva portato via gli animali, e allora con coraggio si era decisa ad affrontare quegli uomini. Una trattativa lunga che però non aveva portato a nessun risultato. Di conseguenza Caterina aveva denunciato tutto ai carabinieri, facendo nomi e cognomi di quelli che riteneva essere i responsabili del furto delle capre. Una decisione inattesa in una realtà come quella in cui soprattutto le donne dovevano ubbidire alla legge del più forte. Insomma, un affronto che Caterina, poco più di un mese dopo, pagherà con la vita.
Dopo l’agguato mortale, le indagini dei carabinieri di Melito Porto Salvo con i marescialli Pale e Marcianò seguiranno due piste. La prima, si legge su un giornale dell’epoca, è che Caterina «sarebbe stata messa fuori strada dalle sue indagini sull’abigeato da personaggi interessati a non dirle la verità e che sono stati presi in contropiede quando la Liberti ha parlato con i carabinieri; oppure la donna avrebbe messo in difficoltà qualcuno che sapeva molto sull’abigeato e che si è deciso a chiuderle la bocca per sempre». Ma dopo un lungo e complesso lavoro di inchiesta per trovare delle prove in grado di inchiodare i colpevoli di quell’assassinio, le indagini furono archiviate. Insieme alla storia di Caterina, una donna coraggiosa che si è opposta alla mentalità barbara e mafiosa della sua terra. (f.veltri@corrierecal.it)
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