Accompagnato da una pioggerellina dispettosa di marzo, sono tornato nell’antico studio (e negozio) fotografico di Carlo Paone, in vicolo 1 Agricoltori civico 1. Nel fianco scarno di piazza Roma, accanto all’angolo più “fuori squadro” della Catanzaro vecchia. E ho passato in rassegna, visionando foto deliberatamente senza colore sparse sui tavoli e sfilandone altre dal mucchio di cartelle ficcate nei cassetti, centinaia di volti di uomini e donne che qui, magicamente, ingannano il tempo che fugge.
Volti di un’umanità intrisa da passioni giovanili, all’inseguimento di primavere mai davvero esplose o velocemente abortite, ma anche piazze e luoghi memorabili di una città, di una regione e di un mondo allora oscillante tra il blocco occidentale e quello orientale.
E sfogliando e scrutando, ho rivisto una Calabria intraprendente, generosa, vivace, combattente, senza complessi d’inferiorità, fiera anche nelle sconfitte. Protesa a sentirsi risorsa di idee, per sé e per il genere umano.
Una Calabria d’immagini bianconero impressionanti, per la forza con cui svelano tristezze cupe e solitudini esistenziali di ragazzi in contesti di degrado urbano ed emarginazione; e immagini a tratti commoventi, per l’entusiasmo che sprizza dalle tante manifestazioni di piazza e dagli eventi topici di un popolo senza santi in paradiso che aveva l’ambizione, nientemeno, di raddrizzare il legno storto del globo terracqueo.
Nell’intrigante negozio di vicolo 1 Agricoltori, è questo l’incontro che si fa. La scoperta di un archivio di 200mila foto che racconta, dagli Anni ‘70 fino agli Anni ‘90, vissuti temerari di lotte sociali e radicali movenze politiche gruppettare; proteste studentesche e grosse manifestazioni sindacali; tradizioni e folklore popolare ancora non fagocitate dall’onnivora mercificazione; coraggiosi reportage sui sequestri di persona degli Anni ‘70 e ‘80 e atroci delitti di mafia che hanno messo sotto scacco la democrazia calabrese. Forti le immagini all’interno del manicomio di Girifalco scattate nel 1986, al seguito della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’applicazione della “180”.
Un patrimonio di scatti che Carlo Paone, da grande fotoreporter qual è stato (nel 1989 ha ricevuto il premio “Chia Sardegna” per la cronaca fotografica e televisiva), con l’obiettivo della sua Canon T90 e a bordo della mitica Citroen 2cv, ha inseguito, scovato, catturato e realizzato, dal Pollino all’Aspromonte, a volte rischiando l’incolumità personale.
Straordinarie le foto che documentato i primi arrivi di profughi in Calabria (Anni ‘80) dalla Repubblica dell’Angola e dall’Egitto accolti a Badolato dalla Chiesa ispirata dall’arcivescovo Antonio Cantisani, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni. È toccante la foto, presa nel 1985 a Davoli, del senegalese sorridente che, sdraiato su un materasso sgualcito per terra, confessa il suo unico desiderio: accumulare un po’ di soldi per riprendere il suo taxi a Dakar.
Molte di quelle immagini sono finite sulle testate giornalistiche più blasonate del Paese e, tramite le Agenzie Contrasto e Ansa, con cui questo autentico fotografo di strada ha collaborato per anni, nei giornali di mezzo mondo.
Non è nel carattere di Carlo Paone chiedere attenzione, favori o acquisti per un consumo usa e getta. Per questo non ha mai realizzato un volume con almeno cento dei suoi metallici clic, benché più volte gliel’abbiano proposto. È schivo, di poche parole, salvo che non si rievochino le giornate delle grandi illusioni del secolo scorso, bruciate, una dopo l’altra, dallo sgretolarsi di ideologie e miti. E credo pensi che niente è indispensabile. E che niente, a partire dalle sue migliaia di foto, abbia un valore assoluto, e che il successo transeat e che, specie se costruito su like ed emoji, non vale dargli corda. Ma sarebbe bello che qualche istituzione culturale lo spronasse ad allestire una mostra itinerante delle sue magnifiche foto. Sarebbe un’emozione, per quelli della sua generazione, specchiarsi in un tempo che hanno attraversato con occhi pieni di speranza.
E sarebbe, magari, anche l’occasione per chiederci quand’è che abbiamo incominciato a cedere al “più lurido dei pronomi”: l’io, come lo inchiodava Carlo Emilio Gadda, pensando di potercela cavare esaltando, fino allo spasimo, le nostre individualità. Dimenticando che ogni vero cambiamento passa dall’unione delle forze.
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