Abbagliato, osservo, da un trespolo di roccia instabile, le aride colline che digradano verso lo Ionio. Dinanzi a me il cono fumigante e nevoso dell’Etna. Di là del mare, che brilla come una distesa di zaffiri. Nel cielo terso del mattino una chiarità infinita. Che è solo di questi luoghi colorati da due azzurri – il cielo e il mare -, da tre tonalità di giallo: l’erba, le rocce, le spiagge poco lontane. E poi solitudine e silenzio. Come nel deserto.
Se non fosse per le case sparse, per i paesi, per le poche strade, si potrebbe credere d’essere in un mondo vuoto, perduto alla memoria degli uomini. Lì dove la costa s’inarca da ovest verso est, come per ritrarsi dal mare, che essa rifiuta di attraversare, come per racchiudere e proteggere la terra che è alle sue spalle. Lì c’è la Calabria più ignota e segreta, la Calabria più calda, arida e siccitosa. Una terra che disvela forme inaudite, adattatesi nei millenni alla forza degli elementi.
Nel salire dalla costa verso Motta San Giovanni, si apre, tutt’intorno, un paesaggio senza eguali. Che ben conosco per averlo sempre amato, non meno di quelli più blasonati. Non sono montagne. Ma non sono neppure coste. Sono gli ultimi passi con i quali l’Aspromonte scende al mare. Sono le forme dei costoni e delle valli che, mentre sali, fanno presagire la montagna, ma dalle quali mancano gli alberi. Solo erba fra le pietre, arbusti fruscianti nel vento, qualche quercia sparuta e bruciacchiata. E poi i greti incassati dei torrenti, con distese di sabbia e rivoli d’acqua. E ovunque massi e rupi dalle forme bizzarre. E dappertutto i segni lasciati dagli uomini nei secoli: pascoli riarsi, sentieri, tratturi, rovine di una civiltà millenaria. Gli strepiti della modernità fraintesa restano laggiù, sulla costa, senza riuscire a penetrare verso l’interno. Sopravvivere sulle alture, nei paesi, alle frazioni, nelle campagne è qui un gesto di coraggio, un segno d’amore senza speranza, un atto di fede. È un paesaggio liminare, una terra di confine.
Siamo alle case di Cambareri. Lì, per puro caso, incontriamo l’uomo che ha reso noto il luogo che intendiamo visitare. Si chiama Filippo. È lui che ci dà le indicazioni necessarie per riconoscerlo. Camminiamo per una stradina fra stenti cespugli. Una vecchia cava abbandonata mostra i suoi pezzi di archeologia industriale che paiono carcasse in una zona di guerra. Solchiamo la steppa collinare che ci separa dalla meta in un silenzio irreale, con in cielo rapaci che roteano sulle correnti ascensionali, osservati da una lepre curiosa che sembra incerta se annetterci a quel suo mondo sospeso o considerarci degli intrusi. E poi ecco il segnale: la fenditura con il masso sospeso sulle due pareti, che segna l’uscita del Canyon di Rocca Boara o di Buttiscu sospeso sul Vallone Giuliano che si tuffa nella valle del Torrente Oliveto.
Entriamo in quella che pare una grotta rifugio nel deserto e invece è un budello scolpito nella morbida arenaria in millenni di erosione. Poi, un gomito ci immette nel sancta sanctorum, dove la roccia è una cattedrale, anzi una piccola chiesa, umile come i luoghi che la circondano, ma nello stesso tempo grandiosa. L’altare non è in basso, ma in alto, sospeso e incastrato fra le due pareti, una delle quali è un volto a me noto: quello di mio padre, volato in cielo pochi giorni prima. L’abside della chiesa è una grande fenditura che precipita nel vuoto. Un luogo oracolare, ove poteva ben stare chi praticava la mantica, l’antica arte del divinare. Un luogo sacro, abitato da un dio tellurico che vive, celato, nell’utero del mondo.
*Avvocato e scrittore
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