Giornalista, scrittore e filosofo, Marcello Veneziani è un intellettuale di rara coerenza. Commentatore acuto e profondo, si è occupato, nei suoi studi, articoli, saggi e libri, di una mole impressionante di questioni. Tra l’altro, è autore del romanzo La leggenda di Fiore, avventura spirituale di una figura leggendaria che intraprende un viaggio senza ritorno verso la Luce. Legato alla figura di Gioacchino da Fiore, il protagonista del racconto entra poi in possesso del suo libro segreto, che credeva perduto. Si ritira quindi in un trullo, veste una tunica e, tra preghiera, alchimia e visioni del passato e del futuro, diventa guida per alcuni seguaci, da cui però si distacca. Fra poesia, pensiero e mistica, Fiore vive amori fugaci e scopre tardi la paternità. È un testo affascinante, che comunque ci riporta all’abate Gioacchino da Fiore. Con Veneziani, a pochi giorni dall’anniversario della morte di Gioacchino, avvenuta il 30 marzo 1202, abbiamo parlato del messaggio profetico del religioso calabrese, che sopravvive nel nostro tempo, di grandi cambiamenti e nuove crisi dell’umanità.
Nel suo romanzo La leggenda di Fiore, lei sembra essersi ispirato all’interpretazione biblica, e forse non soltanto biblica, di Gioacchino da Fiore, in particolare alla profezia dell’Età dello Spirito. Se è così, perché?
In realtà il mio Fiore sta a Gioacchino da Fiore e alla tradizione biblica come lo Zarathustra di Nietzsche sta allo Zarathustra o Zoroastro, profeta iranico dell’antichità. È per così dire il frutto di un’omonimia simbolica. Poi, accade davvero che il mio Fiore della leggenda percorra i passi che lo portano a Gioacchino e a un suo scritto scomparso, e vada in pellegrinaggio sulla sua tomba. Alla fine quel nome diventa un destino e passa “di Fiore in Fiore”.
Che cosa ha voluto dire, in questo suo libro, l’intellettuale e narratore Marcello Veneziani?
La leggenda di Fiore è un cammino spirituale da Occidente a Oriente e ritorno. È la ricerca di un’origine, un senso e un destino, concepita al di fuori del tempo e in luoghi imprecisi, per restare nella dimensione della fiaba. Al viaggio metafisico corrisponde il viaggio fisico, e le circostanze della vita, gli incontri e le avventure si intrecciano all’itinerario spirituale e alla realizzazione di un’ascesa. È un viaggio circolare che congiunge l’inizio alla fine.
Che cosa è per lei lo spirito?
Lo spirito è l’energia che anima e muove l’universo e i singoli uomini. È la forza invisibile che sorregge la vita, i corpi, la materia e la realtà; è ciò che resta quando tutto passa. Lo spirito è la sostanza del reale.
A 823 anni dalla morte di Gioacchino da Fiore, quanto, secondo lei, è attuale il messaggio dell’abate Gioacchino, “di spirito profetico dotato”, in un mondo dominato dal capitalismo, dalla volontà di potenza, dal materialismo e dal desiderio di possesso?
Le letture storico-politiche secolari e profane che si sono fatte di lui dimenticano l’essenza spirituale, mistica e profetica del suo messaggio. Chi ha voluto vedere in Gioacchino il precursore dell’età rivoluzionaria, confonde l’avvento dell’utopia o del comunismo con l’avvento dello Spirito Santo.
Pensa che Gioacchino da Fiore sia ancora un pensatore, per così dire, di nicchia?
Certo non è mai stato una figura di larga popolarità come ad esempio un san Francesco o un sant’Antonio. Il suo pensiero e la sua visione possono essere colti solo da lettori e seguaci qualificati. Anche se il suo sguardo è rivolto all’universo e alla condizione umana in relazione al divino e non solo a pochi.
Più volte, Gianni Vattimo, peraltro di origini calabresi, aveva dichiarato di essersi ispirato al pensiero di Gioacchino da Fiore, anche provando a riformare il proprio “pensiero debole”. Lei vede qualche analogia, se non altro di spirito, tra il filosofo e il religioso?
Anche se Vattimo ha un’originaria impronta cattolica, non vedo grandi analogie tra il pensiero debole e il pensiero profetico; tra l’età dello spirito santo e il nichilismo della fine della modernità.
Con l’immagine del “Drago dalle sette teste”, Gioacchino da Fiore profetizzò l’avvento di un Anticristo, convinto che sulla Terra ci sarebbe stata giustizia e abbondanza di pace, con il trionfo dell’Età dello Spirito sino alla fine dei tempi. Oggi è una suggestione o una possibilità, anche alla luce delle attuali, gravi tensioni internazionali?
La tentazione è forte di sentirsi al capolinea della storia, sull’orlo di una catastrofe; ma bisogna non farsi suggestionare, dopo di noi non ci sarà il diluvio, come si pensa ciclicamente da secoli: sarà la fine di un mondo ma non siamo alla fine del mondo.
Chi sarebbe nel 2025 L’Anticristo, seguendo la dottrina dell’abate Gioacchino?
Se dovessi figurare L’Anticristo direi che non è chi si dichiara tale, come Nietzsche ad esempio, piuttosto è chi finge di essere erede di Cristo, simula magari il suo linguaggio, dice di volere il bene dell’umanità e poi di fatto propizia l’avvento del buio, del nulla e del male.
Qualcuno, nel parlare di Gioacchino, ha ipotizzato che l’era della diffusione dei nuovi supercomputer sarà un tempo di spiritualizzazione. Lei è d’accordo?
Possibile ma non probabile se ci affidiamo ciecamente all’intelligenza artificiale, senza essere guidati dall’intelligenza naturale e soprannaturale. Viviamo l’epoca del dislivello prometeico, come diceva Gunther Anders, la crescita della tecnica finora si accompagna alla decrescita spirituale.
Verso che mondo stiamo andando?
Temo che stiamo andando verso la sostituzione dell’umano, del divino e del reale con l’IA e con il mondo fittizio, virtuale. Ma la storia è fatta di imprevisti e di quella che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini: a volte le conseguenze capovolgono le intenzioni.
Ha un senso, oggi, divulgare il pensiero e il messaggio di Gioacchino?
Direi di sì, seppure cum grano salis. Gioacchino apre orizzonti spirituali e riaccende facoltà intellettuali e religiose che rischiano altrimenti di atrofizzarsi. Ci pone davanti al bivio tra la storia vissuta come caos e caso e la storia intesa come cammino dotato di senso verso una meta. (redazione@corrierecal.it)
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