Era di ritorno a casa quando fu raggiunto dai colpi mortali inferti da due uomini a volto coperto e armati. Era il 27 marzo 1985, esattamente quarant’anni fa il sindaco di Platì Domenico Natale Demaio veniva ucciso da due sicari armati dalla ‘ndrangheta. Un omicidio in pieno stile mafioso che si consumò nella Locride nel suo periodo più buio, quando le intimidazioni e i sequestri di persona rappresentavano i business più fiorenti per i clan. Un delitto che ancora oggi rimane impunito. Mentre il paese aspromontano ricorda con una cerimonia l’allora primo cittadino, sembra lontana la possibilità che possa emergere la verità su un fatto di sangue che colpì, ferendo profondamente, popolazione e istituzioni.
Domenico Demaio percorreva in auto sempre lo stesso tragitto. Sposato e con quattro figli, faceva il pendolare tra Platì e Locri, qui lavorava all’ufficio imposte dirette, oltre ad essere stato eletto sindaco nel paese aspromontano. Quello di primo cittadino era un impegno complesso e gravoso in un territorio dove a dominare era il potere incontrastato dei clan di ‘ndrangheta, a cui si era pubblicamente opposto.
Era una giornata di inizio primavera. Demaio era alla guida della sua auto, una Ritmo. Accanto a lui, lato passeggero, c’era la figlia 17enne Antonella.
In località “Cutrucchio”, nei pressi di Careri, una 125 rossa li affianca e partono colpi d’arma da fuoco. Inizia un inseguimento al termine del quale Demaio è costretto a fermarsi. Scende dall’auto e si allontana dalla figlia, un gesto che le salverà la vita. Il sindaco viene seguito e raggiunto da due uomini che lo uccidono colpendolo alla nuca. Aveva 46 anni.
«Mentre scappavo ho sentito gli spari, ma non pensavo che l’avessero ucciso», racconterà in seguito la figlia, come riportano le cronache dell’epoca.
Secondo quanto emerse dalle indagini dei carabinieri, Demaio sarebbe stato ucciso per vendetta dopo che si era opposto, anche tramite manifesti murali, e aveva riacquisito al patrimonio del Comune cento ettari di terreno occupato abusivamente da esponenti della famiglia Barbaro per il pascolo delle loro greggi. Un’accusa che non resse. Il delitto rimane ancora oggi senza un colpevole.
«Io avevo solo due anni quando mio zio Mimmo è stato ucciso, eppure la sua assenza ha lasciato un segno costante nella nostra famiglia». A parlare ai microfoni del Corriere della Calabria è il nipote, Francesco Violi, professore di discipline umanistiche, che da vent’anni vive a Torino. «È una presenza che continua a ispirarmi», afferma Francesco, regalandoci un racconto intenso e commosso dello zio che non fece in tempo a conoscere.
Sono trascorsi come può trascorrere il tempo quando manca una risposta, quando il dolore resta sospeso, non chiuso. Io avevo solo due anni quando mio zio Mimmo è stato ucciso, eppure la sua assenza ha lasciato un segno costante nella nostra famiglia. Sono cresciuto con le sue fotografie, i racconti, i silenzi pieni. La giustizia, quella terrena, non è mai arrivata. Ma abbiamo imparato a camminare comunque, nel solco del suo ricordo. Zia Maria, sua moglie, vedova da quel 27 marzo 1985, ha dato a tutti un esempio altissimo. Nel 2008, in occasione della intitolazione a mio zio della piazza antistante il comune, quel giorno, dall’altare della chiesa di Platì, ha pronunciato la parola “perdono”. Un gesto che non si dimentica.
Credo che ognuno di noi, a suo modo, continui a cercare un senso, anche se non sempre le risposte arrivano. Mi chiedo spesso: cos’è davvero la verità? E, una volta svelata, cosa cambierebbe? So solo che io confido nella giustizia divina. Nel frattempo, provo a vivere il Vangelo, vivo con la dignità e la fierezza così come l’hanno fatto i suoi figli, ciascuno secondo la propria strada, e come ha fatto zia Maria, con la sua dignità ferita e luminosa.
Parto da questa domanda perché, in fondo, è quella che mi accompagna da sempre. Non ho mai smesso di chiedere di lui. Non ho sempre ricevuto risposte precise, ma ho sempre ricevuto uno sguardo, un tono, un racconto. Mio zio Mimmo era anche il mio padrino di battesimo, e sono molto geloso della catenina che porto al collo: è un simbolo, un legame.
Mi raccontano che fosse un “homo novus”, una figura innovativa nella Platì degli anni Settanta e Ottanta. Una persona che portava idee nuove, che cercava il cambiamento, che sapeva guardare avanti. Quando penso a lui provo fierezza. Mi dico: “Io devo fare le cose bene, al meglio, perché sono anche suo nipote”. È una presenza che continua a ispirarmi, anche se non l’ho mai potuto conoscere davvero. È vivo nei ricordi di chi l’ha amato, e in ciò che, pur nel dolore, ha lasciato dietro di sé: una sete di giustizia, di bellezza, di verità.(m.ripolo@corrierecal.it)
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