REGGIO CALABRIA Una «diffusa attività estorsiva posta in essere con metodo mafioso» in nome e per conto dei Cordì «ai danni di commercianti e imprenditori locresi», che «conferma il carattere attuale dell’operatività della cosca». Secondo i giudici della corte d’appello di Reggio Calabria «nessuno degli atti di impugnazione» presentati nell’ambito del processo in secondo grado nato dall’inchiesta “Riscatto – Mille e una notte”, può scalfirne il «granitico quadro probatorio». Nelle pagine delle motivazioni del processo, i giudici parlano della «capacità di intimidazione» del clan di ‘ndrangheta, che per «realizzare il proprio programma delittuoso» si è dimostrato “determinato” anche all’utilizzo di armi.
Nell’agosto 2019 l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria aveva permesso di ricostruire l’operatività di gruppi criminali riconducibili alla cosca Cordì per estorsioni e per il monopolio sul cimitero locrese. Dall’organizzazione dei funerali alla vendita dei fiori, passando per le attività edili sulle tombe fino al trasporto dei defunti: secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, gli indagati avrebbero gestito con modalità illecite tutte le attività legate ai servizi funebri del cimitero locrese. Il processo in primo grado aveva portato alla condanna di 9 persone da parte del Tribunale di Locri. In parziale riforma della sentenza emessa nel novembre 2021, la Corte d’appello di Reggio Calabria, nell’ottobre 2024 ha disposto quattro assoluzioni, quattro condanne rideterminate e una condanna confermata. Le pene più pesanti sono state inflitte a Domenico Cordì (18 anni e 6 mesi), Guido Brusaferri (18 anni) e Gerardo Zucco (18 anni). Condannati anche Albatoaei Vasile (5 anni) ed Emmanuel Micale (11 anni).
«L’analisi di tutte le emergenze istruttorie consente di ritenere provata la sussistenza del reato associativo», scrivono i giudici, che sottolineano come la cosca di ‘ndrangheta facente capo alla famiglia Cordì sia «imperante nel territorio di Locri». Circostanza confermata da collaboratori di giustizia «soggettivamente credibili e le cui dichiarazioni, perfettamente sovrapponibili sul punto, trovano vicendevole riscontro oggettivo».
E i giudici ricordano la storica contrapposizione tra due famiglie di ‘ndrangheta: «Dal complessivo compendio probatorio in atti risulta univocamente come, nell’ambito della criminalità organizzata locrese, si contrappongano da anni i gruppi dei Cataldo e dei Cordì: quest’ultimo, in particolare, avente a capo il boss Cordì Vincenzo, interprete ed attuatore, al vertice dell’organigramma criminale, del condiviso scopo tra gli adepti di realizzare il programma delittuoso del clan, attraverso una effettiva e concreta capacità di intimidazione, nonché di assoggettamento e di omertà della collettività». Capacità di «intimidazione e assoggettamento» che il clan Cordì era in grado di mantenere attraverso una «diffusa attività estorsiva posta in essere con metodo mafioso», «ai danni di commercianti e imprenditori locresi» portata avanti anche attraverso l’utilizzo di armi. Una «compagine criminale – scrivono i giudici – peraltro negli anni precedenti coinvolta in una guerra di mafia, avente la disponibilità di armi e determinata a ricorrerne all’uso in caso di necessità, al fine di realizzare il proprio programma delittuoso».
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