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Una Medea contemporanea

«Leggere la Lunga notte di Medea è leggere il nostro tempo, quando Alvaro scrisse della maga che la classicità greca volle assassina dei suoi figli»

Pubblicato il: 06/04/2025 – 13:00
di Francesca Tuscano
Una Medea contemporanea

Il classico è un autore sempre contemporaneo. Perché nel suo tempo e nel suo spazio ha letto i tratti universali dell’umanità che appartengono a ogni tempo e ad ogni spazio. E li ha giudicati. Il suo punto di vista non è diacronico, ma sincronico. Il classico non parla mai solo del suo tempo, perché in lui il tempo è un punto, e lo spazio una linea che appartiene interamente a quel punto. Perciò non c’è autore più attuale di Dante e opera più contemporanea della Commedia. Ed è così anche per Alvaro. Leggere la sua Lunga notte di Medea è leggere il nostro tempo, insieme a quello del secondo dopoguerra, quando Alvaro scrisse della maga che la classicità greca volle assassina dei suoi figli.

L’undici luglio del 1949 la Lunga notte di Medea fu messa in scena per la prima volta al Teatro Nuovo di Milano, con la regia di Tatjana Pavlova (interprete anche del ruolo di Medea), le scene e i costumi di Giorgio De Chirico e le musiche di Ildebrando Pizzetti. Era stata la Pavlova a cercare Alvaro, da quanto riferito dallo scrittore, che riconobbe alla frequentazione con l’attrice russa, e alla scrittura su sua commissione della Medea, un ruolo di grande importanza all’interno della sua esperienza di autore di teatro. In effetti, si può ben dire che Alvaro, seguendo l’esempio russo, dovesse molto alla Pavlova, quanto Čechov a Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko, e Majakovskij a Mejerchol’d. Durante il viaggio in Unione Sovietica, negli anni Trenta, Alvaro aveva conosciuto in prima persona il teatro russo post-riforma, anche se ormai negli anni staliniani, drammaticamente distanti da quelli eroici delle sperimentazioni, a cavallo dell’Ottobre. Eppure, Mejerchol’d era ancora vivo e attivo, anche se ormai privo del suo autore più importante, Majakovskij, morto suicida nel 1930. Alvaro conobbe le compagnie di Vachtangov, Taìrov, Mejerchol’d, e il MChaT, il teatro fondato da Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko. Cercò di annotare le principali caratteristiche di ognuno dei grandi interpreti della sperimentazione teatrale russa, e l’11 luglio del 1934, da Bakù, scrisse a Silvio D’Amico sulle novità delle messe in scena di Mejerchol’d. Quando incontrò Tat’jana Pavlova, quindi, non gli era sconosciuta la ricerca teatrale russa. Ma il lavoro dello spettatore e del critico è ovviamente ben diverso da quello di chi il teatro lo fa, e fu collaborando con la Pavlova che Alvaro poté dire di aver davvero conosciuto il teatro russo del Novecento. Ne è testimonianza la sua narrazione dell’incontro con l’attrice russa, e del lavoro fatto su Medea insieme a lei: 

L’anno passato nel mese di marzo, Tatiana Pavlova volle rivedermi dopo non pochi anni. […] venne a chiedermi di scriverle una tragedia, e precisamente una Medea. […] In un ambiente artistico in cui non esistono rapporti, in cui nessuno chiede niente, in cui non si sa per chi lavori, l’occasione che mi offriva Tatiana Pavlova dovevo coglierla a volo. Io sono di quegli scrittori cui piacerebbe lavorare su commissione. Sono convinto che uno scrittore, naturalmente su fatti congeniali, sapendo a chi sia destinata la sua opera, possa lavorare con minore incertezza che su un tema dato, e possa scoprire qualcosa di insospettato in se stesso, e su una fiducia che gli è concessa scoprire forza in sé che egli stesso ignora; e adattandosi a un temperamento di attore possa oggettivarsi meglio. […] Tatiana Pavlova non mi diede tregua fino a quando, in venticinque giorni, non le ebbi letta la prima stesura della tragedia. Accompagnandoci per andare da Ildebrando Pizzetti o da Giorgio de Chirico […], facevamo lunghe strade a piedi, di notte, ed ella per strada provava le battute. Qualche passante nella notte si voltava a quella visione d’una donna che supplicava, inveiva, piangeva, rideva, avanti a un uomo che la guardava insensibile. Delle sue reazioni e dei suoi consigli alla lettura, io feci tesoro per l’elaborazione della prima stesura. Alcune scene le riscrissi fino a sette volte, anche quando ella pareva soddisfatta. E ancora per un mese, dopo averle consegnata la copia definitiva, le riportavo una nuova versione di alcune scene. I suoi suggerimenti erano di minuto mestiere, di pratica di palcoscenico, perché là dove la vedevo indifferente o commossa, questo mi bastava come indicazione. Trovò una frase «beccabile», molti avverbi che ella classifica «non recitabili». Altri consigli suoi molto utili furono di badare di continuo all’ambiente circostante, al clima del dramma, quello che si muove attorno ai protagonisti. Mi avvertiva dei vuoti, affidandosi interamente alla mia invenzione. Il suo insegnamento più prezioso fu quello del tema o, come lei lo chiama, «il seme» del personaggio, cioè quel motivo ricorrente che, orchestrato variamente, rivela il carattere e il segreto del personaggio, conducendo là di continuo, scopertamente o larvatamente. Diciamo che uno rappresenti l’ambizione, un altro la gelosia, un altro la volontà di potenza, un altro l’amore: sono come strumenti che a volta a volta entrano nell’orchestra. Il tema di queste passioni deve ripullulare di continuo nel personaggio, e isolato in una frase tra le più tipiche, da del personaggio il motivo dominante. Difatti, quando Tatiana Pavlova cominciò a provare, estrasse alcuni di questi temi facendoli ripetere all’infinito all’attore, con una continua indagine di quelle intenzioni e di quell’effetto. È come la chiave del personaggio. Ho dovuto constatare che l’attore, impadronitosi di questo segreto, può con un minimo sforzo, poi, costruire quasi da sé il resto della sua interpretazione.

Le lunghe passeggiate con la Pavlova rappresentarono per Alvaro, che riconosceva in sé la vocazione dell’autore teatrale “sucommissione”, un’esperienza simile a quella degli autori coinvolti dai maestri russi della regia in un lavoro di stretta collaborazione e interferenza. Per questo, come non è insensato parlare dei drammi teatrali di Majakovskij come di opere costruite a quattro mani con Mejerchol’d, e come non si può pensare al Čechov successivo a Il gabbiano senza l’apporto sostanziale di Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko, così Lunga notte di Medea si deve considerare un’opera tanto alvariana quanto pavloviana. Alvaro stesso lo dice, innanzitutto quando annota come fondamentale per la sua scrittura l’insegnamento del “seme” (naturalmente, la Pavlova si rifaceva alla lezione di Nemirovič-Dančenko, là dove il teorico affermava che sia il regista che l’autore devono “morire nella personalità dell’attore”).
Nel 1925, ricordando Ercole Luigi Morselli, a proposito del modo in cui il poeta e drammaturgo aveva ripreso nella sua opera i temi della mitologia classica, Alvaro aveva scritto:

L’opera di Ercole Luigi Morselli deriva dal classicismo carducciano e dannunziano. Ma mentre essi nella poesia e nel dramma storico cercavano di rivivere un mondo tramontato e la rappresentazione di passioni gigantesche e incomparabili, Morselli riprendeva le favole antiche non come avvenimenti privilegiati, ma come aspetti d’un immutabile mondo di passioni umane. Nella sua tragedia mitologica, sorta già tardivamente e fuori dell’orbita classicista, si nota un abbassamento di tono e un riaccostamento improvviso di prospettiva. I suoi personaggi non hanno più nulla della ricostruzione, e la distanza fra il nostro mondo e il loro è improvvisamente raccorciata. A badarci bene, si nota come il mondo dei personaggi stessi, le loro credenze, i loro dei non hanno nulla di antico e non formano un mondo nel quale l’artista penetra senza timore come nel tempio di una religione abbandonata e dimenticata. L’antico mondo divino che vi agisce diventa tutt’uno con i concetti generici delle divinità che ogni uomo porta dentro di sé. […] La favola gli passò solo quel tanto di esteriore, di simbolico, di fatto, perché questi stati d’animo acquistassero una parvenza.

In modo simile Alvaro si era avvicinato a Medea, raccorciando appunto la distanza del mito rispetto al mondo del secondo dopoguerra e facendo della maga della Colchide una donna della contemporaneità:

Poiché sono italiano, mi misi a lavorare alla maniera nostra, rispettando il mito, la finzione antica. Si trattava di animarla di quel tanto di vivo e di attuale che rendesse leggibile a noi quella tragedia e che giustificasse una nuova opera sull’antica. Medea, in Euripide come in Seneca, uccide i figli per gelosia verso il marito che la abbandona. Studiando le origini del mito, trovavo un appiglio ben moderno che è poi il senso di questo fatto terrificante alle sue origini. Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi di profughi. Secondo me ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame; estingue il seme d’una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno. Un critico in un giornale settimanale ha trovato nel mio lavoro un significato che mi pare acuto: Medea è la vittima tipica del passaggio d’una civiltà quando la società umana, da primitiva e patriarcale ed eroica, diventa società politica retta da concetti politici. E Giasone non è l’eroe che ha tutti i diritti in quanto eroe, come in Seneca che gli attribuisce gli stessi caratteri di Enea di fronte a Didone (la missione per cui l’eroe può calpestare l’amata) ma un personaggio affatto moderno, spinto dalla sua stessa ambizione a liquidare il suo passato eroico per assumere un rango politico. L’uomo vittima, nei suoi stessi affetti della sua stessa popolarità. Su questi concetti ho lavorato. Naturalmente, il personaggio di Medea usciva dal mio lavoro molto umanizzato, perdeva molto della sua terribilità; e non a torto alcuni critici rimpiangono l’affascinante maga Medea. Non so però se sia chiaro nel mio lavoro che per me la potenza magica di Medea, la sua facoltà di operare portenti era contenuta nell’amore.

Per far passare questi contenuti, riattualizzando il mito, rendendolo ideologicamente marcato e lontano da ogni possibile caduta nell’estetismo modernista, Alvaro aveva bisogno di una diversa coscienza della realizzazione drammaturgica della sua opera, e in questo senso la Pavlova ne divenne co-autrice. Non sappiamo come l’attrice-regista avesse pensato il personaggio di Medea quando commissionò il dramma ad Alvaro. Ma se l’idea di fondo dello scrittore l’aveva convinta (e certamente fu così, se si giunse alla messa in scena), si può supporre che non interessasse neanche a lei riproporre la figura tragica, ormai stereotipata, della madre assassina dei propri figli, impazzita per gelosia. Coerente alla coscienza della funzione pedagogica dell’attore, formatasi attraverso gli insegnamenti di Nemirovič-Dančenko, la Pavlova non poteva non abbracciare l’idea di una Medea exemplum dello strazio di una guerra appena finita, che aveva conosciuto l’orrore dei campi di concentramento, dell’olocausto, di una violenza e una distruzione senza confini. Ma proprio per costruire perfettamente un personaggio così potente e difficile, che doveva essere deprivato da qualsiasi enfasi, la Pavlova non risparmiò ad Alvaro un lavoro continuo di riscrittura del proprio dramma, e l’insegnamento normalmente rivolto agli interpreti, ma di cui anche l’autore, per essere efficace, doveva essere consapevole. Come riferisce Alvaro stesso, la Pavlova gli insegnò innanzitutto a prestare particolare attenzione alla costruzione dell’ambiente nel quale si svolge l’azione, che doveva entrare nel dramma con la stessa rilevanza dei personaggi: si pensi al ruolo della luna nella Seconda scena del Primo tempo, che accompagna la primissima percezione di Medea della sua prossima tragedia; o il vento dell’Ottava scena, che introduce il tema della persecuzione della barbara della Colchide e dei suoi figli da parte degli abitanti della greca Corinto; o il fuoco nella scena della cacciata da Corinto, o la scansione temporale data dalla Voce del Guardiano di notte (che copre i “vuoti” che avvertiva la Pavlova). E poi la lingua. Alvaro annota che la Pavlova trovò che molti avverbi da lui usati non erano “recitabili”. Senza dubbio, l’attrice desiderava una lingua in qualche modo čechoviana per un dramma che contenesse allo stesso livello la sacralità del mito classico e la tensione tragica della contemporaneità. La semplicità, l’essenzialità e la modernità già proprie alla lingua di Alvaro dovevano essere tese il più possibile, fino a raggiungere una sintassi perfettamente lineare, e un uso ritmico della giustapposizione di frasi brevi, incisive. I dialoghi di Lunga notte di Medea sono composti di battute chiuse in loro stesse, che facilitano l’attore nella costruzione del personaggio. Anche i monologhi di Medea sono brevi, costruiti con frasi essenziali, emblematiche come singhiozzi o formule. La Pavlova chiese dunque ad Alvaro di aver cura d’individuare già lui, in quanto autore, il seme del personaggio, il “motivo ricorrente che, orchestrato variamente, rivela il carattere e il segreto del personaggio”, seme che l’attore-artista farà poi germogliare nel personaggio. Ed Alvaro lo farà ricorrendo a una scrittura aforismatica di grande poesia.

Naturalmente, è in Medea che questo tipo di scrittura per aforismi raggiunge l’acme. La forza della maga barbara si esprime nella solennità senza enfasi della sua parola – semplice, incisiva, dolente, altamente evocativa nella sua brevità. Una parola che si espande in quella delle ancelle, Perseide e Layalè, seppure a un livello minore. E che torna a essere potente nella nutrice, Nosside, anche se di una potenza profondamente diversa. Dalle parole di Medea e della vecchia nutrice emerge, infatti, con la stessa forza, il seme dell’amore. Ma per Nosside, la greca, l’amore è governato dalla ragionevolezza. Mentre per Medea, la barbara, l’amore è passione a-logica, sia che si rivolga a Giasone, sia che si rivolga ai figli. Un amore, quindi, che per questa sua stessa natura è sempre pronto a essere altro. Come dice Medea a Nosside:

 So, Posso, Faccio. Se non mi acceca la passione. E allora tutto mi si confonde.

Un amore nato dal delitto, che ha giustificato il delitto, e che è destinato al delitto. Medea lo sa, e perciò implora Creonte di non distruggerlo per un calcolo politico:

Re! Se mi strappi l’amore, mi hai strappato tutto. Guardami, Re, guarda come mi umilio. Guarda come tanti delitti possono implorare l’amore di un uomo.

Il “seme” di Medea si sviluppa, dunque, nella dialettica tra l’amore normato della civilizzazione greca (che prevede un ruolo di moglie formale) e la passione del mondo pre-logico che non esclude persino il delitto. Sul matrimonio come mezzo di annullamento della dignità dell’uomo e della donna, Alvaro aveva scritto molti anni prima, recensendo la riduzione teatrale di Savoir e Nozière di Sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj:

In quell’opera […] è rappresentato, attraverso un racconto d’una lucidità di delirio, l’abisso della sensualità umana, la profanazione del corpo umano nell’unione senza anima. La donna vi rappresenta l’essere impuro e l’origine d’ogni male perché l’uomo l’ha voluta così, perché uomo e donna si ritrovano come strumenti vili uno di fronte all’altro.

Medea ha amato e ama Giasone con passione autentica, ma la sua condizione di moglie e di donna (per di più straniera, spaventosa nella sua diversità) la condanna a essere un corpo, uno strumento di potere nelle mani di un uomo che “l’ha voluta così”. La passione di Medea è la sua colpa, in un mondo (quello razionale e politico della grecità) che non prevede che moglie e amante siano la stessa persona:

Medea – Come sono le greche?
Layalè – Stanno a casa. Gli uomini vanno dalle loro amanti. La gioia è delle amanti. I guai e i dolori sono delle mogli.
Perseide – Una moglie deve essere una moglie. Deve fare figli. Occuparsi della casa. Essere virtuosa. Medea è moglie e amante.

Anche l’uccisione dei figli sarà un atto d’amore, incomprensibile per i ‘civili’ abitanti di Corinto, che pure vogliono la morte di Medea e dei suoi bambini, e per Giasone, che pure ha abbandonato i figli a un possibile destino di morte pur di non lasciare il palazzo e la donna che gli garantiranno un futuro da re. Il seme di Giasone è l’ambizione – un’ambizione meschina, politica, quella dell’uomo moderno, come osserva Alvaro. Persino il suo essere eroe è un peso del quale vuole liberarsi, insieme al mondo che appartiene al suo passato eroico – Medea e i propri figli. Come sarà nella Medea pasoliniana, il conflitto tra Giasone e Medea non è soltanto un conflitto tra un uomo e una donna, ma tra due civiltà, tra il logos della civilizzazione e la sacralità della barbarie. In entrambe le interpretazioni del mito, Medea è la straniera, l’esule destinata a non avere più una terra sulla quale fermarsi per allevare i figli e vivere da donna e non più da maga, perché il passaggio dalla terra dei draghi a quella della legge è distruttivo, è nefas (malgrado la speranza di Medea, che per amore non vuole vedere il suo destino, non diversamente da Edipo, disconoscendosi persino il dono della preveggenza). Corinto non può che essere nemica alla donna della Colchide, perché rappresenta il mondo che teme l’a-logicità della civiltà pre-politica alla quale Medea appartiene, come le dirà Creonte, quando la scaccerà (e se il seme di Giasone è il desiderio di potere, quello di Creonte è la logica del mantenimento del potere, che non conosce umanità, e crea mostri per giustificare la propria mostruosità). La straordinaria modernità della Medea alvariana(pari solo a quella cinematografica creata da Pasolini venti anni dopo) è senza dubbio da attribuire in egual misura all’indiscutibile valore del suo autore, ma anche alla non comune capacità di penetrazione del testo della Pavlova. D’altro canto, anche lei era un’esule, vista con sospetto, spesso tollerata, come Medea. E la ferocia dell’amore della principessa della Colchide era comprensibile a una russa quanto a un calabrese ‘greco’. Una ferocia legata all’idea di destino, così forte in due culture apparentemente lontane ma in realtà vicine per la stessa radice greco-bizantina. Quando Medea sa di essere perduta, alla fine del colloquio con Creonte, lo dice, “convulsa, profetica”:

Ma io ho paura! Ora sono io che ho paura. Perché non c’è più nessuno con me, se non il destino.

Sono parole che rimandano alla solennità tragica delle donne di Gente in Aspromonte, ma anche a quella delle eroine dostoevskiane, ben note alla Pavlova quanto ad Alvaro. La stessa percezione dell’irrimediabilità le rende sacre e vittime, ancor più nel tempo della ferocia e della guerra, quello finito solo qualche anno prima della scrittura di Lunga notte di Medea, e che Alvaro ricorda, come un’eco, nelle parole di Egeo a Medea:

Egeo – Siamo entrati in rapporti coi popoli più lontani, e con la loro ricchezza abbiamo acquistata la loro barbarie. Essere duri di cuore è ormai la sola cosa che hanno in comune i popoli.
Medea – (impaziente) Sì, Egeo.
Egeo – Il focolare è oggi tutto quanto uno possiede. Scacciato da quello, è scacciato dal mondo.
Medea – Porta via i miei figli con te. Prendili come tuoi servi.
Egeo – Oggi basta un pretesto qualunque per la guerra.
Medea – Il più bel vanto di un regno, era quello di accogliere gli esuli dei regni vicini, invisi ai re. Pur rimanendo i re in pace tra di loro.
Egeo – (prendendola larga) E sai chi sono i peggiori persecutori degli esuli? Quelli che si fecero un vanto di proteggerli. E sai perché? Perché temono il nuovo occupante. E sai perché …

Lunga notte di Medea è un’opera politica, ideologica, ma non perché ‘a tesi’. Lo è perché è parola offerta all’attore per creare personaggi vivi, nella loro tragica attualità. Una parola nata dalla sincronia di un classico.
Francesca Tuscano è laureata in Russo e Tedesco e in Italianistica, e dottore di ricerca in Comparatistica. Ha pubblicato diversi saggi sui rapporti tra la cultura russa e quella italiana, molti dei quali su Pasolini e su Alvaro, e la monografia La Russia nella poesia di Pasolini (Book Time, 2010). Ha pubblicato diverse raccolte di poesie.

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