Primi di aprile del 1990. Un’altra era, un altro mondo. Per capirci: niente telefonini, niente social, niente pc di uso comune. In quegli anni l’Aspromonte era una montagna maledetta. L’anonima sequestri mieteva ancora le sue vittime. Il parco nazionale era solo una legge nata l’anno prima dalla proposta del WWF, voluta dal senatore socialista Sisinio Zito, ma ancora inattuata. L’escursionismo da quelle parti era un’attività pionieristica. Non c’erano guide scritte né sentieri segnati. Andare in montagna era ancora esplorazione pura. Avevo visto dall’alto e studiato sulle carte militari la valle della Fiumara Butramo – una sequenza ininterrotta di gole, canyon e brevi tratti più larghi – tributaria della Bonamico, il corso d’acqua che scorre sotto San Luca. Interrogai gli amici del paese sulla percorribilità delle gole. Mi diedero conferma. Capii solo dopo che si riferivano a sentieri sulle pendici: rifiutavano l’idea che intendessimo, invece, procedere nell’alveo.
Quel giorno, dunque, al mattino presto, lasciammo il nostro furgone a San Luca, da dove, i nostri amici ci accompagnarono in fuoristrada al Casello di Cano, più o meno in corrispondenza dell’inizio del tratto alto della fiumara. Assicurammo che saremmo tornati a piedi in paese a sera. Avevo avvertito il mio amico Alfonso Picone Chiodo, insieme al quale, nel 1999 scrivemmo poi la prima (ed unica) guida escursionistica all’Aspromonte. Avevo calcolato la lunghezza del percorso: 15 km. Quindi fattibile in un giorno. Ma non ero così stupido da non immaginare difficoltà. Per questo portammo con noi imbraghi, corde, moschettoni, discensori e quant’altro.
Iniziammo a ridiscendere la fiumara laddove era poco più che un torrentello montano, fra boschi di faggi, pini ed abeti. Ma, ben presto iniziarono le difficoltà. Dai lati scendevano costoni sempre più ripidi e rocciosi, con enormi querce isolate. L’alveo si inabissava improvvisamente con cascate e pozze profonde e con tratti a canyon. Dove potevamo ci calavamo in corda doppia, ma nei tratti molto stretti eravamo costretti a lunghi aggiramenti a monte per evitare di bagnarci. Perdemmo così tempo prezioso. Sino a che, quel po’ di sole che entrava nelle gole scomparve e iniziò ad imbrunire.
Avevo come punto di riferimento sulle carte la confluenza nella Butramo della Fiumara Potis sul lato sinistro, che si trovava a circa metà percorso. Non avendola incontrata sino a quel momento, mi arrampicai su un’altura che poteva essere lo spartiacque fra le due valli. Mentre calava il buio, vidi il suo alveo bianco e pietroso sull’altro lato del costone. Tornai dai miei e preparammo un campo improvvisato sotto un leccio, con, fra i rami, una rudimentale trappola per i ghiri. Non avevamo sacchi a pelo né cibo. Le scorte d’acqua erano esaurite. Restammo in dormiveglia tutta la notte attorno ad un fuoco di bivacco improvvisato.
Al mattino, appena fece chiaro, ripartimmo. Sentivamo i rotori di un elicottero sopra di noi, che però non vedevamo e che non poteva vederci (quelli di San Luca avevano dato l’allarme). Poi seppi che il buon Alfonso, con un paio di carabinieri era già in marcia nella parte bassa della Butramo, per provare a raggiungerci. La seconda metà delle gole era ancora più stretta e complicata. Per cui rinunciammo a proseguire nell’alveo e improvvisammo una risalita ripida, faticosa, quasi alla cieca sulla pendice di sinistra, verso la stessa strada sterrata lungo la quale eravamo saliti in fuoristrada il mattino precedente.
Dopo quattro ore arrivammo sulla strada. L’elicottero alla fine ci individuò. Ad attenderci, c’erano i Carabinieri. Scendemmo insieme al paese. Ci identificarono e provarono a “spremerci” per sapere quale fosse la “vera ragione” di quel nostro comportamento, inconcepibile per qualsiasi persona di buon senso, all’epoca. Erano convinti che avessimo a che fare con i sequestri in corso nella zona. Si rilassarono solo quando arrivarono notizie su di noi dai loro colleghi di Lamezia Terme: un avvocato un po’ matto, la moglie libraia, un imprenditore col figlio, un medico stimato. Ripartiti per Lamezia, a Locri saccheggiammo una pasticceria, dove credevano che fossimo tecnici dell’Enel o della Snam che andavano in montagna per lavoro. L’indomani, sulla Gazzetta del Sud, il compianto Paolo Pollichieni, scrisse un articolo da Locri ed io, che collaboravo col giornale, affiancai un mio resoconto dell’accaduto. Tornammo in quella valle altre volte: alla fine, riuscimmo a percorrerla tutta.
La Fiumara Butramo mi torna sempre in sogno, trasfigurata, come una città sepolta. Il mio cuore è ancora lì, dopo 34 anni, sotto quel leccio dove bivaccammo la prima volta. Ma grazie alle nostre utopie, alla perseveranza di pochi, alla lungimiranza di chi, nei paesi, si impegnò insieme a noi per il riscatto, “L’altro Aspromonte”, come lo chiama Alfonso nel suo blog, uscì fuori dalle ombre della maledizione e dei pregiudizi. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e piena di difficoltà.
*Avvocato e scrittore
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