COSENZA Sono un attempato cronista che ha visto incanutire i suoi capelli scrivendo delle gesta di Giuseppe Morabito, detto “’U Tiradrittu” boss della montagna di Africo frazione di Casalnuovo, nato sotto il segno del Leone il giorno di Ferragosto del 1934.
Ho raccontato nel corso del tempo della sua precisione nell’uso delle armi da fuoco nelle faide dei tempi andati, dei suoi 12 anni di latitanza che per lungo tempo lo ha visto alla testa dell’elenco dei fuggiaschi più pericolosi d’Italia fino al 2004, quando polizia e carabinieri poco coordinati tra loro uccisero il figlio Domenico, 39 anni, nel corso di un’operazione che doveva arrestarlo.
Ora aggiungo l’ultimo capitolo di cronaca del nonno del calciatore Sculli, del suocero di un medico che ha mescolato la sanità con le cosche, di un capo della vecchia ’ndrangheta.
Alla Corte europea dei diritti umani nei confronti del vecchio boss di Africo è stato detto con sentenza: “La Corte non riesce a comprendere come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo, e persino a cui era stata diagnosticata la malattia di Alzheimer, e che non era in grado di comprendere la propria condotta o a seguito di un’udienza in tribunale, potesse al contempo mantenere una capacità sufficiente per mantenere o riprendere (ad un età così avanzata, dopo vent’anni trascorsi sotto un regime particolarmente restrittivo) contatti significativi con un’organizzazione criminale”.
Sono questi i motivi per i quali la Corte ha condannato la Repubblica Italiana per tenere ancora oggi al 41bis con le sue inumane restrizioni un vecchio di 92 anni il quale non si regge in piedi e che a quanto pare ha solo ricordi sbrindellati nella sua testa anziana. Mentre nelle carceri c’è chi ha a disposizione telefonini criptati in cella, lo Stato italiano si aggrappa al simbolico tenendo in condizioni durissimo un prigioniero sconfitto. È stato un personaggio fuori dalle righe “Tiradritto”, capace di far notificare in passato al capo della Polizia, Vincenzo Parisi, un atto ingiuntivo mentre si trovava nel Tribunale di Locri. Non è stato uno stinco di santo, Peppe Morabito, mafioso capace di mettere assieme la tradizione, la gerarchia e le regole dei vecchi clan con l’innovazione del narcotraffico globale con proventi finiti oggi nelle Borse di mezzo mondo.
Di recente Nicola Gratteri ha raccontato in tv a Peter Gomez di quando lo arrestò.
Avremmo voluto vederli, uno di Gerace, l’altro di Africo, quando si capirono i due nemici con mezze parole alla calabrese trovandosi uno fronte all’altro. Disse il Tiradritto: «È colpa mia se oggi siamo tutti e due qui». Sostanzialmente era il riconoscimento del boss all’avversario che aveva “giocato con un solo mazzo di carte” per dirla con le parole di Gratteri, quindi senza doppi giochi e favoritismi.
Anche per questo Peppe Morabito si sarebbe sempre opposto a far ammazzare Gratteri. Comunque sia andata, e quasi sicuramente è andata in questo modo, è una vicenda storica e giudiziaria ormai chiusa. Si adoperi buon senso e soprattutto senso del Diritto. Peppe Morabito in carcere al 41 bis offende la cultura giuridica italiana che ancora considera la pena come recupero di chi ha sbagliato e non certo come tortura. Il vecchio boss sia mandato a finire la sua vita ad Africo. I lacerti di ricordi stentati del suo cervello ammalato come condanna definitiva della sua tribolata e disdicevole esistenza possono anche bastare.
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Il recuperato deputato Andrea Gentile grazie ad un pugno di voti molto contestati ha iniziato in ritardo la sua attività parlamentare. Lo ha fatto nell’aula parlamentare decidendo di esordire con un intervento sulle funzioni della Corte dei Conti. Da comunicato apprendiamo che Gentile junior è intervenuto a favore dei pubblici amministratori che devono essere “liberi” di assumere responsabilità nell’interesse collettivo senza legacci della magistratura contabile ma per un utilizzo “più consapevole e sicuro” del denaro pubblico. Si vuole anche contrastare “la paura della firma” dell’amministratore. Tutto molto “liberale” secondo Andrea Gentile e dettato dalla “compliance” che la Treccani m’indica come parola traducibile con i termine “accondiscere, condiscenza, remissività”. Detta alla buona il termine inglese vuole dire che l’azione della magistratura contabile deve essere condivisa nell’operato dai controllati della politica. Più che liberale sembra tutto molto trumpiano.
Ritengo conveniente a corollario aggiungere due notizie al nuovo esordio parlamentare di Andrea Gentile.
La prima. Abbiamo appreso da un intervento alla Camera della pentastellata Carla Giuliano che in un emendamento della legge difesa da Gentile ci si è preoccupati di ridurre le sentenze pecuniarie di dirigenti pubblici e avvocati dello Stato già condannati dalla Corte dei Conti. Guarda il caso, alla Regione Calabria un dirigente e un avvocato dello Stato sono stati condannati di recente a risarcire una somma molto consistente. Secondo la deputata calabrese Laura Orrico l’emendamento in questione “è stato proposto da Forza Italia, probabilmente indotto da Forza Italia che governa la Regione. Per fare cosa? Lasciare impunito un dirigente che doveva fare il proprio dovere e non l’ha fatto”. La questione, fondata o vera che sia, non ha appassionato più di tanto le altre forze di opposizione calabresi.
La seconda notizia può essere utile anche al deputato Andrea Gentile, che forse non ne è a conoscenza, perché maturata nel periodo che era impegnato nel suo ricorso elettorale. Tra i proponenti della legge da lui difesa a spron battuto c’è il capogruppo di Forza Italia Paolo Barelli, ironia della sorte condannato dalla Corte dei Conti al pagamento di 495.000 euro per danno alle casse pubbliche per una causa legata al suo ruolo di presidente della Federazione Nuoto. Una vicenda contraddittoria che ha visto il deputato archiviato in sede penale e ora attendere il parere della Cassazione sulla condanna contabile. Magari la “compliance” proposta dall’onorevole Gentile mette tutto a posto anche prima.
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Mimmo Lucano resta sindaco di Riace. Il consiglio comunale ha respinto la decadenza con un voto a maggioranza, un solo astenuto e l’assenza dei 3 consiglieri di opposizione, dopo il provvedimento di metà marzo della prefettura di Reggio Calabria in seguito alla condanna definitiva e pena sospesa a 18 mesi per un falso contestato a Lucano nel processo “Xenia”. Secondo il Viminale, seppur con pena sospesa, la condanna rientrerebbe nella fattispecie della legge Severino per la quale Lucano sarebbe stato ineleggibile. La Prefettura ora può ricorrere al giudice civile. Si vedrà.
Lucano, al netto delle contese giudiziarie che a quanto pare non appassionano chi teme altri grovigli di leggi, ricordiamo che di recente è stato chiamato in cattedra all’università di Neuchatal in Svizzera per spiegare il suo “modello” ritenuto valido dai paesi elvetici del Cantone Vallese alle prese con lo spopolamento che è fenomeno europeo e non solo meridionale. Il governo italiano sul fenomeno ha varato una Strategia nazionale per le aree interne. Un nucleo di valutazione del Senato ha recentemente scritto: che “nei comuni calabresi interessati i provvedimenti finanziari non hanno influenzato significativamente la struttura della popolazione”. Insomma, i fondi stanziati hanno cambiato molto poco o quasi nulla in termini demografici.
Forse a Riace è meglio che il Viminale non si opponga a Lucano sindaco e permetta ad un modello di ripopolamento con migranti di dare prospettive possibili di vita ad una Calabria spopolata e senza prospettive. (redazione@corrierecal.it)
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