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l’Alvarodì

Solo la cultura, che si fa arte, ha il potere immaginifico di trasformare in pane i sassi delle fiumare

Da oggi e fino al 15 aprile sul Corriere, riflessioni, punti di vista ed un’intervista di Corrado Alvaro alla Radio Svizzera Italiana

Pubblicato il: 13/04/2025 – 11:00
di Enzo Romeo*
Solo la cultura, che si fa arte, ha il potere immaginifico di trasformare in pane i sassi delle fiumare

All’inizio dell’estate del 2006, a cinquant’anni dalla morte, i concittadini di Corrado Alvaro andarono a commemorarlo a Piazza di Spagna, scoprendo una lapide sul muro di quella che era stata la sua casa romana. «Calabrese di San Luca, romano di adozione», c’è scritto sulla targa, che si trova quasi all’ingresso della Metro A, in uno dei punti più frequentati della capitale.
    Quando vi abitava Alvaro il Vicolo del Bottino era ancora un posto tranquillo, un angolo quasi nascosto a fianco della scalinata di Trinità dei Monti, dove s’affacciava la finestra del suo studio. Fu lì che in modo discreto lo scrittore si congedò da questo mondo, all’alba dell’11 giugno 1956. Aveva 61 anni. Un tumore lo uccise mentre era ancora nel pieno della sua attività e si sussurrava di un possibile Premio Nobel. Il giorno dopo il corteo funebre passò davanti alla “Barcaccia”, attraversò Piazza Mignanelli con l’obelisco dell’Immacolata, costeggiò il palazzo di Propaganda Fidae e giunse alla basilica di Sant’Andrea delle Fratte. Osservò un testimone, il giornalista e scrittore Giovanni Russo, legatissimo ad Alvaro: «Il tratto è lungo quanto il corso di un piccolo paese calabrese. Passava per Piazza di Spagna un funerale meridionale».
    Dietro alla bara di legno chiaro si erano allineati, vestiti di nero, i parenti giunti da San Luca, preceduti dalla moglie bolognese, Laura Babini, e dal figlio Massimo. Corrado gli aveva dato il nome del fratello minore, sacerdote, che in quei giorni era corso al capezzale del moribondo. Con l’ultimo soffio di vita che gli restava in corpo, Corrado gli aveva sussurrato: «Oggi comincia per me un’altra vita». Singolari parole per uno che aveva sempre tenuto alla propria laicità. Poi qualcuno aveva tirato fuori dalla tasca un rosario, mentre un quadro della Madonna di Polsi, patrona dell’Aspromonte, veniva posto accanto al letto.
    Fu don Massimo a celebrare le esequie e quando tornò al paesino di Caraffa del Bianco, dov’era parroco, raccontò una bugia all’anziana mamma, che non avrebbe retto alla notizia della morte del figlio prediletto. Per anni, dopo la scomparsa del fratello, il prete scrisse lettere alla madre firmandole «Tuo Corrado». Raccontava che tutto andava bene, che la pensava assai e che un giorno o l’altro sarebbe tornato ad abbracciarla.
    La parrocchia delle Fratte – nota come la chiesa della Madonna miracolosa perché si conserva l’effige della Vergine che “parlò” all’ebreo Alfonso Ratisbonne – era retta, e lo è ancora, dai Padri Minimi. In uno degli altari campeggia la grande statua del loro fondatore, San Francesco di Paola, patrono della Calabria. La chiesa fu perfetta cornice di quel rito funebre dal sapore “nostrano”, che chiudeva il cerchio delle radici alvariane. La prima prova d’autore lo scrittore l’aveva fatta raccontando in un libretto, stampato a Gerace nel 1912, il pellegrinaggio al santuario di Polsi. Aveva 17 anni e si era unito alla moltitudine che, a piedi, saliva verso quel luogo sacro e selvaggio, celato tra le montagne. Alvaro guardava le donne che si trascinavano in ginocchio per sciogliere un voto, gli uomini che ballavano le tarantelle sfrenate; ascoltava i racconti dei contadini, gli spari dei fucili in aria, il suono delle zampogne. Assorbì ogni cosa come il tampone l’inchiostro e l’impronta di quel viaggio riemerse anni dopo nei lavori più maturi.
    Il padre, maestro elementare, lo aveva mandato quasi bambino a studiare al Venerabile Seminario di Frascati per sottrarlo al destino miserevole del paese. Un gesuita francese, Padre Orbain, divenne sua guida e confessore. Gli fece comprendere che non c’è solo il Dio della paura, quello temuto e invocato nelle processioni popolari. In L’età breve (1946) Alvaro scrisse: «…e si volgeva ora a suo padre e sua madre che amavano Dio e pregavano, certo, come i pastori di creta del presepe in cui l’amore di Dio è come una luce e una speranza, ma che non capiscono, e Dio è molto buono con loro perché sono semplici, rimangono abbagliati e tremanti della potenza di Dio, e non sanno che possono amarlo e che tutto è amore».
    Riemergevano ricordi infantili, quando il padre allestiva il presepe, dove tutti i pastori somigliavano a persone familiari. C’era un personaggio, in particolare, che colpiva la fantasia di Corrado, l’incantato: «…è un pover’uomo che non ha nulla e non porta nulla. S’è fermato accanto alla grotta e guarda la stella che s’è posata come una farfalla tra la neve della roccia, sulla mangiatoia dove è nato il Signore. Non si muove e non fa nulla. Sta lì a braccia aperte, bocca spalancata a guardare quella stella. Ma l’incantato è là come uno scimunito, colpito dal segno celeste, senza poter parlare. Egli ha capito tutto, conosce il miracolo della nascita del Signore. Ma non potrà raccontarlo a nessuno» (da Sussidiario, 1925).
    A Frascati successe, però, qualcosa di imprevisto: Corrado fu allontanato dal collegio perché sorpreso a leggere testi proibiti. Per il mariologo padre Stefano De Fiores, concittadino e studioso di Corrado Alvaro, «fu un’espulsione ingiusta, che ha segnato profondamente l’animo di Alvaro, caricandolo di oscuri sensi di colpa». Alvaro divenne un duro osservatore dei vizi e delle deformazioni del cattolicesimo. Nel 1951 annotò nel suo diario: «Thomas Mann ha chiesto udienza al Papa per dirgli che il cattolicesimo deve ritornare cristiano». Disse De Fiores: «Ciò che Alvaro osserva nel cattolicesimo preconciliare è la mancanza di vera carità e di giustizia, il formalismo vuoto e perfino la connivenza con il male». Lo scrittore ascoltava i sermoncini in cui si parla di elemosine e di remissione alla legge dei potenti e nel 1948 nel diario descrisse così il suo rapporto con la fede: «Credi ancora in Dio, ma hai rifiutato tutti quelli che credono di detenere Dio. La religione ufficiale è fallita e dà l’impressione di un continuo oltraggio a Dio».
    Eppure non mancò di cercare contatti con la Chiesa, o almeno con i rappresentanti che considerava più liberi e profetici. A Roma fin dal 1934 strinse sincera amicizia con don Giuseppe De Luca, una delle figure cattoliche più illuminate e vicine al mondo culturale. Con lui si incontrò spesso e gli scrisse, «questuante di consigli». De Luca era, tra l’altro, consulente della editrice Morcelliana di Brescia, che rispondeva alla sua idea di strumento culturale cattolico ma non ecclesiastico. Il prete lucano apprezzava moltissimo Alvaro e lo volle tra gli autori delle collane da lui curate, «di quelli che creano, senza provocare reazioni confessionali, stati d’animo nuovi». Dal canto suo Alvaro aveva sempre avuto orrore di farsi assorbire dalla cultura dominante. Per questo aveva rifiutato di prendere la tessera del partito fascista, e tanto meno avrebbe mai accettato etichette da credente. Nel ’38 regalò una poesia alla sorella di don De Luca, Maddalena, piena di pathos religioso, ma con scritto in calce: «Riproduzione vietata a scopo di propaganda cattolica».
    Nel dopoguerra conobbe e divenne amico di un altro prete sui generis, don Zeno Saltini. Nel marzo del ’51 visitò Nomadelfia (che significa “dove la fraternità è legge”), la comunità che Saltini aveva fondato nelle campagne di Grosseto, e si interrogò sull’ideale che lì si cerca tuttora di realizzare. Rimase colpito dal tentativo di applicare quel Vangelo dell’amore di cui egli sentiva profondamente nostalgia. Era forse attratto dall’utopia di una società nuova e perfetta, come lo furono altri illustri calabresi, da Gioacchino a Campanella.
    In ogni caso, la Bibbia era stata amica di Alvaro negli anni difficili della fine della I guerra e del regime mussoliniano, quando era stato costretto a riparare a Chieti. Perciò non deve sorprendere se nel 1947 comparve una sua traduzione del Vangelo di Marco. Fu l’editore veneziano Neri Pozza a chiedere a quattro scrittori di curare un’edizione dei Vangeli, preceduta da un saggio di don Giuseppe De Luca. Gli altri tre erano stati affidati a Nicola Lisi, Diego Valeri e Massimo Bontempelli. Il testo di Marco, il più breve di tutti, ben si adattava allo stile essenziale di Alvaro, secco ed asciutto. Anni dopo, nel 1954, Alvaro nel diario si professa «irrimediabilmente cristiano». Sulla scia di Benedetto Croce e del suo Perché non possiamo non dirci “cristiani”. Torna in mente l’incantato del presepe, che comprende il mistero ma non può raccontarlo. Eppure, lo scrittore ha raggiunto le vette della letteratura del nostro Novecento, si è fatto voce e coscienza del Mezzogiorno, ha dato respiro europeo all’asfittica cultura italiana del suo tempo, stretta tra l’ottusità del fascismo e la mondanità provinciale del dopoguerra.
    Cosa direbbe oggi Alvaro della sua terra natale? Lui che aveva il profilo del contadino di San Luca: la testa massiccia, lo sguardo duro e penetrante. Tutto è cambiato e tutto sembra uguale al passato. Tra le balze aspromontane la festa di Polsi si ripete intatta alla fine di ogni estate e la trama di Gente in Aspromonte rimane attuale nella sua poetica crudezza. I possidenti umiliano il pastore Argirò e lui ha due tipi di reazione. La prima, positiva, è in questa frase: «Qui, in questo paese non c’è scampo per nessuno, con questi mariuoli che comandano. Bella riuscita che sarebbe per me, per noi tutti, che da casa nostra uscisse qualcuno che potesse parlare a voce alta, e li mettesse a posto». Si parte dalla constatazione amara della realtà per trovare una risposta e immaginare una concreta via di autentico progresso. Ma c’è anche la reazione negativa. Dice sempre Argirò: «A questa gente dobbiamo fare un dispetto che se lo ricordino per tutta la vita». Ecco la tentazione di usare la scorciatoia della vendetta, della giustizia privata, di rispondere con la violenza alla violenza.
    Questo è il bivio di fronte a cui sono posti i calabresi (ma, potremmo dire, l’umanità intera): da una parte la strada del vero riscatto, dall’altra quella del ripiegamento su se stessi; da una parte la sofferenza per l’ingiustizia subita (nel caso della Calabria l’abbandono da parte di uno stato disattento e lontano) che genera voglia di migliorarsi e fare intendere le proprie ragioni, dall’altra la ferita che provoca solo rancore e risentimento, carburante perfetto per il motore della mafiosità. Il figlio di Argirò appiccherà il fuoco ai boschi dei nobili nel vano tentativo di ottenere una riparazione.
    Alvaro da inviato giornalista girò mezza Europa e ne raccontò i palpiti. Della Germania, di cui ammirava la cultura, descrisse in modo mirabile passioni e turbolenze che avrebbero condotto poi al dramma della follia nazista. Ma paradossalmente non c’è luogo nel Vecchio Continente più esplicativo delle montagne aspre e struggenti da cui partì giovanissimo. Lì meglio che altrove si può avvertire quanto sia sottile il confine tra bene e male, tra cultura e sottocultura, tra rispetto dell’uomo e rispetto mafioso, tra famiglia e clan, tra sviluppo economico e affarismo criminale. Forse Alvaro se ne rendeva conto. Un calabrese, diceva, è mobile anche quando è fermo dietro una scrivania ed è fermo anche a migliaia di chilometri dal suo paese. Nei figli e nei nipoti degli emigrati c’è spesso un legame profondo con il mondo dei padri, che si crea paradossalmente mentre ci si allontana da esso. Forse è un bisogno di appaesamento, esplicitato dal desiderio di conoscere le proprie origini.   
    Qualcuno negli anni passati aveva pensato di trasformare San Luca e la sua valle in un parco letterario dedicato ad Alvaro. L’avventura è finita con l’ennesimo commissariamento prefettizio, non sappiamo dire se inevitabile o inutile. Di certo era una buona idea, perché per il riscatto sociale di un popolo i libri e la cultura servono almeno quanto le divise e i tribunali. Cito a esempio un episodio avvenuto pochi mesi dopo la morte di Alvaro, nel novembre 1956: la cerimonia del Premio Crotone. Alla sua istituzione aveva contribuito lo stesso scrittore, il cui nome risultava nella giuria. Scomparso Alvaro, i riflettori si accesero su un altro giurato illustre, Giuseppe Ungaretti. Il poeta arrivò a Crotone verso la mezzanotte, accompagnato in macchina da Catanzaro Lido. La folla lo attendeva al cinema-teatro Ariston e quando finalmente annunciarono il suo ingresso in sala l’ovazione fu incontenibile. Le cronache riferirono con toni solenni: «Platea e galleria rizzatesi in piedi prorompono in un galoppo di cavalleria inviso con le mani». Ungaretti fu sorpreso, quasi smarrito dalla calorosissima accoglienza. Leonida Repaci, vincitore di quella prima edizione, ne colse le sue parole e le riportò: «Mai mi era successa una cosa così… Dei contadini… Degli operai…».

    Alvaro non si sarebbe meravigliato. Lui lo aveva scritto: solo la cultura, che si fa arte, ha il potere immaginifico di trasformare in pane i sassi delle fiumare.

                                                                                                    Enzo Romeo

Enzo Romeo (Siderno, 1959) è caporedattore e vaticanista del Tg2. Ha iniziato la sua attività giornalistica in Calabria prima di essere chiamato in RAI nel 1988. È stato tra l’altro inviato e responsabile dei servizi dall’estero. Ha pubblicato decine di saggi, tradotti in varie lingue. Oltre che di argomenti religiosi, si è occupato tra l’altro di temi letterari (Pavese, Alvaro, Saint-Exupéry, Simenon).

Era forte il timore nell’animo del prof. Vito Teti e del gruppo di intellettuali appassionati studiosi, Pasquale Tuscano, Francesca Tuscano, Enzo Romeo, Roberto De Napoli, Fulvio Librandi, Katia Scolieri, Maria Saccà che, trascorso l’Alvarodì, lo scrittore calabrese di Gente in Aspromonte tornasse ramingo nella mente di pochi o fosse evocato solo come evento di spettacolo in qualche occasione sporadica. Da qui il Gruppo Corriere della Calabria, già da settimane, per colmare un vuoto significativo a centrotrent’anni dalla nascita di Corrado Alvaro, continuerà a raccontare grazie ai contributi di Vito Teti e Francesca Tuscano, il suo quotidiano e le sue opere. Da oggi e fino al 15 aprile sul Corriere, poi, riflessioni, punti di vista ed un’intervista di Corrado Alvaro alla Radio Svizzera Italiana.

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