Lugano 1947, Radiomonteceneri, la Rete Uno della Radio Svizzera Italiana, trasmette in onde medie l’intervista di Vito Pandolfi a Corrado Alvaro. Era stata registrata qualche giorno prima a Roma, in via Cavour,335, in casa del pittore Mario Mafai, fondatore del gruppo artistico Scuola di Via Cavour, attivo nella capitale dal 1928 al 1945. La sua casa era notoriamente luogo di ritrovo e discussione fra artisti e letterati quali Enrico Falqui, Giuseppe Ungaretti, Libero de Libero, Leonardo Sinisgalli, Renato Marino Mazzacurati. Pandolfi era collaboratore fisso dei programmi culturali di Radiomonteceneri. Era critico, autore e regista teatrale nonché direttore del Teatro Stabile di Roma dall’istituzione, 1964, e fino al 1969. Non dice nulla sul titolo della rubrica culturale che ospita l’intervista, non fa una presentazione di Alvaro né spiega perché lo ha intervistato. Probabilmente queste informazioni sono andate perdute, tutto sommato la registrazione risale al 1947, 78 anni fa, su un vinile di ceralacca con supporto di alluminio, è facile che qualcosa si sia degradata. Il motivo che spinse Pandolfi a intervistare Alvaro probabilmente risiede nell’interesse di entrambi per il teatro e in particolare per Brecht. Alvaro, infatti, tradusse dal tedesco l’opera di Brecht Dreigroshenoper (tradotto da Emilio Castellani nel 1946 in L’Opera da tre soldi), adattata e messa in scena da Bragaglia, col titolo Veglia dei lestofanti, l’otto marzo 1930 al teatro dei Filodrammatici di Milano. Anche Pandolfi si interessò a quell’opera; ne aveva fatto una sua libera interpretazione come tesi con la quale si era diplomato regista nel 1943 all’Accademia nazionale d’arte Drammatica intitolata a Silvio D’Amico, sulla traduzione di Riccardo Aragno dell’opera originale inglese Beggar’s Opera, scritta da John Gay nel 1728.
La rappresentò l’undici febbraio di quell’anno al Teatro Argentina di Roma col titolo L’Opera degli straccioni. Nell’intervista sono espliciti i riferimenti al linguaggio narrativo e drammaturgico, al modo di intendere il teatro e la narrativa, anche da un punto di vista politico. Entrambi, Alvaro e Pandolfi, erano accomunati dalla stessa considerazione di rifiuto del regime, seppure in modo differente. Alvaro non aveva tessere di alcun partito, si era dichiarato contro il fascismo. Pandolfi era comunista, seppure non ortodosso, ma attivista contro il regime: fu arrestato due volte per vilipendio al regime. Su La Stampa del 1998 si racconta che Pandolfi durante la prima della rappresentazione della sua Opera degli straccioni, con un allestimento clandestino dell’Accademia drammatica di Roma, all’arrivo della polizia scappò da una finestra ferendosi seriamente. Nella registrazione manca anche la prima domanda che, tuttavia, si può agevolmente dedurre leggendo la risposta, e cioè: Quali libri legge? Così risponde Alvaro:
Rileggo quasi sempre gli stessi vecchi libri. Essi ispirano una libertà nell’arte e nei mezzi per aggiungerla, come nessuna opera più audacemente moderna può ispirare. Essi fanno coraggio. L’arte si raggiunge i tanti modi a patto di avere qualcosa da dire urgente. Ma leggo anche gli scrittori contemporanei e di preferenza tre o quattro in tutto. Gide, per quel continuo richiamo alla classicità, fattiva e operante. Da noi la classicità diventa presto bigottismo, ermetismo, formalismo. In Hemingway trovo un carattere attraente che forse pochi hanno notato: quel suo stupore e rispetto di barbaro di fronte ai fenomeni semplici e popolari della vita europea, per decaduta che sia, cui egli si affaccia coi suoi personaggi, sbigottito dell’aspetto ineffabile di una civiltà profonda in cui si sente che gli dèi l’hanno abitata molto tempo.
Domanda Pandolfi. Due pesanti ostacoli che hanno complesse origini storiche, si sono sempre posti al narratore e al drammaturgo italiano: l’ostacolo del linguaggio parlato o scritto e conseguentemente l’ostacolo del lettore. Di quale natura, di quale stato sociale, come li ha affrontati e pensa si debbano affrontare?
Alvaro. Credo che il risultato più importante raggiunto dagli scrittori della mia generazione sia di aver formato un linguaggio accessibile a tutti, moderno, duttile, e con quel tono che è carattere della nostra lingua. In un paese di molti dialetti come l’Italia, dominato sempre dai pregiudizi del linguaggio illustre e accademico, ciò rappresenta una conquista. Quanto allo strato sociale dei lettori ho l’impressione che in Italia i lettori di una lettura convenzionale siano transfughi di una condizione sociale, in provincia come in città, nel popolo come nella media borghesia. Transfughi, cioè scontenti e che cercano qualche cosa.
Pandolfi. Vent’anni di letteratura francese si sono mossi dall’inchiesta Pourquoi écrivez vous? Per la rivista “Revue Mensuelle Litterature, (1919 ndr) all’inchiesta Pourquoi écrivez vous? della rivista comunista Commune (1933 ndr). Molti letterati italiani sono volutamente sfuggiti a questo esame di coscienza, ma lei certamente no. Lo dimostra tutta la sua opera. Quali furono e sono ancora le sue risposte?
Alvaro. Scrivo per scoprire a me stesso le ragioni vere della vita e poi i moventi, le debolezze, le vittorie del nostro spirito, e come si forma questo spirito, e quali origini ha, quali traversie ha subito. Mi premerebbe comunicarle agli altri. Io penso che il compito della nuova generazione di scrittori nostri sia di riallacciarsi alla vera essenza italiana e di compiere finalmente quell’opera di mediazione fra ciò che è vivo nella nostra cultura e che è rimasto sterile attraverso tutte le reazioni accademiche pressappoco quello che tocca alla società italiana: di compiere una conciliazione fra i profondi bisogni e anche bisogni spirituali del popolo e l’assetto sociale. Ho detto che la crisi di questi anni ha messo a nudo le piaghe, le ferite, la salute della nostra Italia. Conoscerle, definirle, comunicarle significa lavorare per la coscienza nostra e del nostro paese. La coscienza vera di sé e del proprio mondo è il fondamento di una vita civile e solidale. Noi oggi non possiamo essere i trionfali portabandiera della nazione. Noi siamo gli obiettori di coscienza e ciò era la più feconda vena della tradizione italiana, quella che nella storia della letteratura passa per irregolare.
Pandolfi conclude. Terminiamo riportando un apprezzamento personale dato da André Gide cui Alvaro viene a conoscenza per la prima volta. André Gide ha letto con entusiasmo “L’età breve” e dichiara che è l’opera più significativa a lui conosciuta della letteratura italiana, e non solo italiana, di questi ultimi anni. Alvaro è uno scrittore che ancora progredisce. La sua opera, di anno in anno, va assumendo proporzioni sempre più vaste e portata sempre maggiore. Possiamo salutare in lui uno dei maggiori autori spirituali della nuova cultura e della nova civiltà italiana. Un uomo che sa dire molto alle coscienze e agli animi con la familiarità e la commozione della grande arte.
Nove anni dopo, luglio 1956, qualche settimana dopo la morte di Alvaro, Pandolfi scrive di lui un articolo critico sulla rivista specializzata di teatro Il Dramma, dal titolo Alvaro vocazione interrotta. Ripercorre criticamente l’evoluzione positiva di Alvaro drammaturgo dall’esordio con Il caffè dei naviganti (1939) all’ultima rappresentazione Lunga notte di Medea (1949) e conclude: Le sue elaborazioni drammatiche avrebbero anch’esse potuto trovare uno sbocco concreto e positivo, qualora fossero state nettamente più larghe ed aperte le possibilità di lavoro.
Roberto De Napoli (1948), laurea in lettere. Programmista Regista RAI: autore testi, conduttore e regista di programmi radiofonici regionali e Radio Uno. Autore testi con documenti audiovisivi originali e inediti per RAI DUE. Direttore per conto della RAI e tutor al corso IFTS di regia televisiva, cinematografica e teatrale. Regista di telegiornali e rubriche televisive regionali e nazionali, ha scritto, tra l’altro, saggi, articoli e volumi su Alvaro giornalista e Alvaro e la radio.
Nota esplicativa “Ripensare Alvaro” di Rubbettino Editore
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