LAMEZIA TERME Per la Cassazione è necessario risolvere il tema della «concreta affidabilità o meno delle prove in contrasto» e, inoltre, valutare quelle a carico degli imputati «per avere contribuito al mandato omicidiario, anche eventualmente esercitando poteri istruttori», con piena libertà di giudizio. È uno degli aspetti cruciali della decisione della Corte sulla sentenza riguardante Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio e Rocco Santo Filippone, ritenuto appartenente alla cosca Piromalli di Gioia Tauro, imputati nel processo “Ndrangheta Stragista”. Lo scorso 16 dicembre la Cassazione aveva disposto l’annullamento con rinvio della sentenza per il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi in un agguato il 18 gennaio 1994 lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, a Scilla, e per gli attentati di fine 1993, ai danni di altre due pattuglie dell’Arma.
Quello contestato al boss di Brancaccio e all’esponente della cosca Piromalli è un agguato rientrante nelle cosiddette “stragi continentali” che hanno insanguinato l’Italia all’inizio degli anni Novanta. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria, i giudici, condividendo l’impianto accusatorio sostenuto dai pubblici ministeri Giuseppe Lombardo e Walter Ignazitto avevano sottolineato l’esistenza di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici»
Nella motivazioni rese note in queste ore, gli ermellini della Sesta sezione penale (Pierluigi Di Stefano presidente) invece pongono l’accento su quello che non esitano a definire un “corto circuito” che riguarda nello specifico le «prove centrali» per dimostrare «la responsabilità degli imputati», a cominciare dalla partecipazione agli incontri organizzativi. Se per i giudici reggini la struttura probatoria poggiava sulle convergenti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia e nei plurimi accertamenti giudiziari, ormai passati in giudicato, riguardanti sia gli assetti della ‘ndrangheta reggina negli anni ’90 che il ruolo rivestito dall’imputato Graviano all’interno della strategia stragista degli anni ’90 di cosa nostra, per la Corte di Cassazione la ricostruzione si scontra «nell’accertare il concorso morale di Graviano e Filippone» nell’omicidio dei due carabinieri.
La Cassazione riconosce la logicità nella ricostruzione dei fatti ricostruiti dai giudici reggini e, soprattutto, i rapporti e le cointeressenze tra le due organizzazioni criminali nell’arco temporale degli agguati e gli incontri tra esponenti siciliani e calabresi sul territorio calabro, con cui la ‘ndrangheta decideva di aderire alla “strategia stragista” di cosa nostra, attraverso «il compimento dei delitti anche sul territorio di pertinenza», rientrando nell’attuazione della “strategia del terrore” con l’ intento di indurre lo Stato a trattare sul tema dei benefici penitenziari e quanto alla disciplina dei “pentiti”.
Secondo il Collegio, però, l’affermato ruolo di mandanti ascritto ai due imputati «non è dimostrato adeguatamente» perché le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, valorizzate dai giudici reggini, sono «connotate da evidenti e, allo stato, insanabili contraddizioni risultanti dal testo della sentenza che la Corte distrettuale non ha in alcun modo chiarito», nonostante le specifiche doglianze difensive proposte in sede di appello. Uno dei collaboratori, ad esempio, affermava di avere appreso de relato le notizie in ordine alle riunioni, alla causale delle riunioni e ai soggetti che ne avrebbero preso parte oltre al mandato conferito a Rocco Santo Filippone «di individuare gli esecutori degli attentati». Il collaboratore però, pur avendo indicato l’unica fonte delle proprie conoscenze, ha poi rettificato questa versione nel dibattimento di appello, indicando come fonte primaria delle informazioni «il padre di Consolato Villani», personaggio di spessore ‘ndranghetista sin dagli anni 70 e in passato vicino alla cosca dei Latella, e ha confermato che le stesse informazioni gli erano state date anche da un altro soggetto che offre una versione diversa e, soprattutto, non compatibile con quella del primo collaboratore. Per la Cassazione, quindi, «entrambi dicono di avere appreso dall’altro le informazioni in oggetto» senza che vi sia stata una «effettiva risposta della Corte distrettuale».
Toccherà ad un’altra Corte d’Assise di appello di Reggio Calabria decidere le sorti dei due imputati e valutare, quindi, se la piattaforma probatoria sia in grado di dimostrare la responsabilità degli imputati per il mandato omicidiario al di là di ogni ragionevole dubbio. (g.curcio@corrierecal.it)
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