Alzi la mano che non è stato tentato dal modificare il proprio profilo in versione Ghibli. Io l’ho fatto, con soddisfazione. E stavo per chiedere a ChatGpt anche di generare una action figure con una mia foto, il nuovo trend delle miniature collezionabili complete di oggetti, come fossero giocattoli in edizioni limitata. Mi sono fermata davanti alle richieste crescenti di AI, quando avendo proposto di fare una versione di me in stile anni Settanta ho chiesto di corredare la miniatura anche con un telefonino e lei, l’intelligenza artificiale, mi ha fatto notare che forse era meglio una vecchia macchina da scrivere, perché i telefonini negli anni Settanta non esistevano. È evidente che l’IA è intelligente, è già parte integrante della produzione culturale, quasi sempre in modo occulto. La utilizziamo ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo perché la maggior parte di noi la considera una delega di pensiero e non la sfida di un dialogo complesso tra intelligenze diverse. Tra tecnofobici e tecnoentusiasti è arrivato il momento di sperimentare forme di collaborazione consapevole e critica. Siamo in grado di confrontarci con una logica diversa dalla nostra che è già tra noi? Oltre che denunciare i rischi della post verità siamo in grado di comprendere come si costruisce la verità nell’era dell’intelligenza artificiale?
Si discute molto in tutto il mondo del libro – che è in realtà un esperimento collettivo – “Ipnocrazia” (della casa editrice Tlon), un saggio sui meccanismi del potere nell’era digitale, che più che sull’oppressione puntano sulla manipolazione della realtà e su narrazioni ipnotiche, con Donald Trump ed Elon Musk in prima fila. L’autore è un giovane filosofo di Hong Kong, Jianwei Xun, tradotto dall’editore stesso, il filosofo Andrea Colamedici. In realtà, come poi ha svelato l’Espresso, l’autore non esiste. “Non come individuo, ma esiste come fenomeno filosofico”, dice Tlon, “È emerso da un dialogo tra intelligenze umane e artificiali, incarnando esattamente quella condizione che il libro descrive: un’era in cui la costruzione narrativa non è più un semplice strumento di comprensione, ma il tessuto della realtà”. Ipnocrazia non è semplicemente un libro sulla manipolazione percettiva nell’era digitale, ma la dimostrazione vivente dei suoi meccanismi, che nel momento della sua rivelazione acquisisce la sua forma definitiva. È un esperimento che invita a sviluppare una nuova forma di alfabetizzazione del reale, in un’epoca dove la distinzione tra verità e simulazione si fa sempre più sfumata. Come scrive “Xun” nel libro: “La vera resistenza all’Ipnocrazia non risiede nel rifiutare la simulazione, ma nella capacità di abitarla consapevolmente”. C’è insomma uno spazio incerto tra verità e funzione che dobbiamo imparare ad abitare consapevolmente. Quello spazio esiste, è reale, in esso navigano intelligenze multiple. Non sappiamo come chiamarlo ma esiste.
Fatecni caso, ogni volta che sentiamo Trump smentire se stesso pensiamo: ma è scemo? No, non è un bullo rincoglionito che dimentica quello che ha detto un’ora prima e cambia continuamente le carte in tavola. Trump sta creando qualcosa di nuovo, però non abbiamo ancora il nome col quale chiamarlo. L’’intelligenza artificiale, se usata bene, è un ottimo strumento per imparare a pensare. Potenzialmente può dirti tutto ma bisogna sapere cosa chiedere. La Francia è impazzita per Xun: il lemma “hypnocratie” è entrato su Wikipedia. Siamo in cerca di parole che ci aiutino a orientarci in uno spazio che non sappiamo come definire ma che sappiamo esiste.
Ci affanniamo a fare fact-checking alle cose che dicono Musk e Trumo. Spiega Colamedici nell’intervista all’Espesso: «Serve a poco. Tu puoi smontare i fatti tuoi, non puoi smontare quelli di una realtà diversa. Viviamo in un regime che manipola la percezione». Qualche mese fa intervistai il filosofo Maurizio Ferraris sull’AI, mi fece l’esempio di Platone e di quello che pensava sulla scrittura. Ne pensava malissimo ma la utilizzava. Oggi è così con l’intelligenza artificiale. C’è chi può usarla a scapito della nostra libertà. Ma per capirlo bisogna andare oltre lo studio Ghibli. Inseguire trend, suggestioni, evocazioni, post e discorsi che ci fanno stare nel confort del mainstream condiviso. Dobbiamo invece imparare a scrivere. Altrimenti resteremo come quelli che mettevano una X al posto del nome. (redazione@corrierecal.it)
Foto in copertina da “City Now”
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