È una mattina di primavera, il sole spunta dalle vette dell’Aspromonte. È quasi estate, 4 giugno del 1976. Sono da poco passate le sei del mattino e come ogni giorno l’avvocato Alberto Capua si sta dirigendo a bordo della sua automobile, una Peugeot 204 targata Roma, verso una tenuta di famiglia a Seminara. Alla guida del mezzo, come sempre, c’è Vincenzo Ranieri, 63 anni, anche lui possidente, seppure di modeste proporzioni, amico e autista di fiducia, padre di quattro figli. Alberto Capua, invece, di anni ne ha 73, non è sposato ed è molto ricco. Possiede diversi terreni, è stato sindaco di Melicuccà, il suo paese, come indipendente di destra. Pure suo fratello Antonio fa politica, anche se di mestiere fa il radiologo. Ex sottosegretario all’Agricoltura, deputato liberale per diverse legislature, guida una clinica romana e dal 1972 è senatore dell’Msi. Insomma, i Capua sono una famiglia molto nota, inevitabile che la malavita, molto attiva nella zona, abbia messo gli occhi su di loro.
In quegli in Calabria i tentativi di sequestro di persona sono diventati una insostenibile routine. Non si parla d’altro, si vive nel terrore. Ma proprio lui, l’avvocato e possidente Alberto Capua, sembra non avere paura. Anzi, ha deciso di sfidare pubblicamente chi solo osi pensare di attuare nei suoi confronti un tale affronto. «Non mi prenderanno vivo», aveva detto qualche mese prima, con voce ferma. «Ho 73 anni e ho fatto il mio tempo. Se tenteranno di sequestrarmi, sparerò contro di loro». Ed è proprio quello che succederà quella mattina di giugno in un sentiero che conduce ai suoi terreni. Un percorso ripetuto centinaia di volte da Capua, mai cambiato. Nessun testimone ad assistere a una tragedia annunciata.
Vincenzo Ranieri sta guidando lentamente la Peugeot sulla strada polverosa in località Acqua di Basilico, sulla strada che da Melicuccà conduce a Sant’Anna di Seminara, quando improvvisamente di fronte agli occhi si trova un “commando” di tre uomini armati fino al collo. Sono lì per Alberto Capua. L’avvocato di Melicuccà comprende subito ciò che sta accadendo e con un movimento fulmineo estrae dalla cintura la sua pistola, una Smith&Wesson calibro 38, e spara un colpo. Da quel momento in avanti il silenzio della campagna si spezza definitivamente. La risposta dei banditi è immediata, dalle loro pistole partono una serie di proiettili che non danno scampo all’avvocato. Capua è colpito al fianco destro, il sangue gli macchia subito la camicia, si accascia sul sedile e muore dopo pochi secondi. Vincenzo Ranieri è terrorizzato, apre la portiera e prova a fuggire, ma il terreno scivoloso lo tradisce, lo fa sbandare, il panico fa il resto. I numerosi colpi del “commando” armato di fucili a canne mozze e una pistola, raggiungono anche lui. Cade a terra, davanti alla ruota anteriore dell’auto. Muore pochi attimi dopo, proprio mentre i suoi assassini scappano a bordo di una Fiat 1500, lasciandosi alle spalle una scena di morte che forse non avevano progettato.
La Peugeot, con il parabrezza forato e la fiancata bucata, resta lì, abbandonata in mezzo alla strada. Dopo qualche ora, a scoprire la tragedia è un operaio della tenuta di Capua, Antonio Bruggisano. Si era preoccupato per il ritardo dei due, e allora si era incamminato lungo il sentiero che li avrebbe dovuti portare ai campi.
La notizia dell’omicidio si diffonde rapidamente in paese. La zona è invasa di carabinieri, polizia, squadre mobili, Criminalpol, ma dei rapitori non c’è traccia, nascosti evidentemente nel buio delle montagne che circondano Melicuccà. Un mistero. Anche questo duplice omicidio pare destinato a rimanere impunito. Nella provincia di Reggio Calabria, da inizio 1976, i morti ammazzati sono già 75. Dalle pagine della Stampa, arriva l’allarme del sindaco di Polistena, il comunista Girolamo Tripodi: «Il fatto più allarmante che emerge da questo quadro impressionante di delitti è rappresentato dall’impunità per la maggior parte dei responsabili degli atti criminali. Per pochi di essi, infatti, è stata avviata e svolta una concreta inchiesta giudiziaria con risultati positivi».
«I Capua a Melicuccà – scrive invece il 5 giugno Franco Martelli su L’Unità – sono stati per molti anni la famiglia più ricca e potente. La stessa vittima conduceva direttamente la propria azienda olivicola in località Santa Anna di Seminara». «Antonino Capua (fratello di Alberto, ndr) nel 1955 – evidenzia sempre L’Unità quel giorno – era stato protagonista di un clamoroso episodio: la sua auto sulla quale viaggiava assieme alla moglie fu bloccata da un «commando» di mafiosi sull’Aspromonte. Il Capua a quell’epoca era sottosegretario all’Agricoltura. Si disse che i mafiosi sbagliarono persona, perché in effetti cercavano un imprenditore reggino da sequestrare. La reazione fu violenta quanto inutile. Nacque infatti quella che fu chiamata l’«operazione Marzano» dal nome del questore che fu mandato a Reggio Calabria con una sorta di carta bianca contro la mafia. In quel periodo, tuttavia, si ebbe piuttosto il rinsaldamento tra mafia e potere politico della Dc».
Gli inquirenti valutano più ipotesi, i carabinieri trascorrono giornate intere a setacciare la zona in cerca di risposte. Case perquisite, interrogatori veloci e confusi, arresti sfuggenti: tutto porta a un vicolo cieco. Un operaio dell’avvocato Capua racconta che quella mattina, prima dell’alba, aveva visto passare una vecchia Fiat 1500 scura davanti al frantoio dove si trovava. Dice che uno dei tre uomini dentro l’automobile era piegato su sé stesso, come se fosse ferito. Quella stessa sera, l’operaio cambia la sua versione. Anzi, con le mani tremanti, rivela di non ricordare più nulla, spiega di non volere entrare in questa storia pericolosa.
Col passare del tempo, si fa largo il sospetto di una rete criminale più ampia specializzata nei sequestri di persona. Uomini legati ai latitanti nascosti nei boschi dell’Aspromonte. Avanza anche l’idea dell’incidente a conclusione di una tentata estorsione.
«Vengono chieste e versate tangenti per il controllo – scrive il 6 giugno del 1976 Liliana Madeo sempre sulla Stampa – che la mafia si è assicurata nei settori dell’edilizia attraverso i subappalti, la speculazione edilizia, gli abusivismi; nella agricoltura durante la fase di raccolta e di commercializzazione dei prodotti; nelle assunzioni, non soltanto presso le aziende private, ma principalmente presso gli enti pubblici. Le cifre pretese variano. Chi rifiuta di sottostare al ricatto, sa di correre grossi rischi».
Ma per un lunghissimo periodo su quel fatto di sangue cala il silenzio. Poi, ad inizio degli anni ’80, arrivano le rivelazioni del superpentito Pino Scriva a fare luce su quanto accaduto ad Alberto Capua e a Vincenzo Ranieri quella mattina di giugno del 1976.
I due sono stati uccisi durante un tentativo di rapimento, la loro reazione all’aggressione ha scatenato la furia del comando. Le accuse di Scriva portano alla sbarra i vertici della ‘ndrangheta calabrese fino ad arrivare al processo alla “Mafia delle tre province“. Verranno così risolti altri fatti criminali di quel periodo come i sequestri del commerciante Vincenzo Cannatà, dell’industriale Salvatore Fazzari, Francesco Napoli, figlio dell’avvocato Filippo, il farmacista Vincenzo Macrì (mai più tornato a casa) e l’omicidio di Giuseppe Valarioti. (f.veltri@corrierecal.it)
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